di Andrea Lilli –

Un uomo, una donna. Innamorati. Una casa. Le parole tra loro. Leggère, si alzano, volteggiano e si depositano dentro casa, nella loro relazione. Invisibili come minuscoli granelli di polvere. Il film è tutto qui, e non è poco: le parole e i silenzi domestici tra un uomo e una donna. Potrebbero essere due larghe ali in equilibrio capaci di far decollare, sollevare la coppia oltre la stanza da letto, oltre le quattro mura del passato, far volare in alto la loro storia, mantenerla in quote lontane dalle nebbie grigie delle mediocrità, via dalle banalità del mondo. Parole e silenzi come suoni belli, necessari di una nuova musica condivisa, strumenti di congiunzione armonica, linguaggio esclusivo, complice, inventato insieme nel vivere il piacere di un amore reciproco. Parole come chiavi di apertura di sé verso l’altro, password valide per entrambi i partner. Potrebbero, dovrebbero essere così, in amore. Oppure.
Saverio La Ruina, Roberta Mattei
Oppure potrebbero trasformarsi in pesi, chiavistelli, catene con lucchetto, le parole. E i silenzi. Può succedere, se uno dei due tradisce la fiducia accordata, ne abusa e decide di imporre la propria visione del rapporto e il proprio linguaggio, essendo anche più scaltro nel dialogo stabilisce di cosa si debba parlare e come, monopolizza il discorso, si chiude all’ascolto mentre finge il contrario e l’altra resta attenta, fiduciosa, più ingenua e quindi vulnerabile. Succede, in un rapporto d’amore fasullo, squilibrato, malato. Le parole e i silenzi diventano allora armi subdole, invisibili strumenti di dominio. Polveri sottili micidiali in quanto impalpabili, violente più di schiaffi, pugni e calci in quanto inafferrabili, inarrestabili: perché quando il bravo parlatore sta zitto, sa servirsi altrettanto abilmente dei silenzi.
Le parole non solo possono far male come pietre o coltelli, che almeno li vedi e il colpo dura un attimo: quelle più perfide, accompagnate magari da gesti apparentemente affettuosi, hanno effetto prolungato e vanno ad insinuarsi sotto pelle, tra i nervi della vittima, nel profondo dell’inconscio e dell’anima: le personalità fragili che abbiano scarsa autostima ed esperienza, abbassata la guardia, sono più facilmente permeabili. Qui, sulla donna (Roberta Mattei) le parole manipolatrici dell’uomo (Saverio La Ruina) diventano microbi patogeni, virus killer che si radicano, sempre più difficili da combattere.

Così il giovane regista Antonio Romagnoli presenta il suo primo lungometraggio (dal 25 ottobre in sala): “La polvere del titolo fa riferimento alle piccole violenze psicologiche che avvengono all’interno di una coppia e che, accumulandosi, danno origine a una violenza più grande e, seppur non subito tangibile, ancora più dannosa di quella fisica. Fa notizia, e di conseguenza percepiamo maggiormente rilevante, l’episodio estremo di violenza. La fa meno il sottostante, incerto, facilmente sfuggente e occultabile sotto al tappeto, come la polvere”.
Dopo il prologo di corteggiamento in esterni, l’intero film si svolge dentro casa. Il titolo, Polvere, appare sullo schermo solo nel momento in cui si entra nell’abitazione, il contenitore da cui non si uscirà più. Le case proteggono, custodiscono, sono confortevoli, ma possono imprigionare. La maggior parte dei film dell’orrore ha come protagonista una casa terrificante, fatale. Qui si tratta di un piccolo appartamento, semplice, senza tanti ornamenti: dall’arredamento essenziale si distingueranno solo una sedia e un dipinto, peraltro nascosti allo spettatore, due dei tanti pretesti con cui l’uomo, impostando dialoghi intrisi di logiche paranoiche e colpevolizzanti, allargherà il suo potere psicologico sulla donna, convincendola di essere piena di torti e difetti. Un fardello di cui fino quel momento nemmeno si era accorta, ma ci penserà lui ad aiutarla. La persuaderà di avere bisogno di lui, non tanto come compagna di vita quanto come un cane che ha bisogno di un padrone per vivere. Un padrone che imponga come la bestia domestica debba correttamente comportarsi dentro casa, abbigliarsi, frequentare o meglio evitare gli altri fuori di casa. Sicché anche il proprio appartamentino tranquillo può diventare opprimente, orribile. Un incubo.

I personaggi del film sono ridotti a loro due, l’Uomo e la Donna, di cui non sapremo nemmeno i nomi, l’età, comunque nettamente differente a svantaggio di lui, a malapena le occupazioni. Lui e lei tra loro si chiamano solo ‘Amore’, continuamente, e questo è quanto: la parola più abusata in un rapporto malato. Lui, via via che il rapporto si piega verso la sopraffazione, mostra il vuoto abissale che sta dietro il bluff dell’ostentata disponibilità ad ascoltare, comprendere, a dialogare con lei.
In realtà le sue parole non sostengono altro che monologhi autoreferenziali, cui lei assiste o partecipa rispondendo passivamente alle domande retoriche di lui sui soli temi da cui è ossessionato, afflitto come è dai più triti pregiudizi misogini sul mondo femminile: le donne “sono tutte puttane”, tranne “quella santa donna di mia madre”, e se in agosto di notte escono con abiti leggeri “allora se lo cercano”, eccetera. Lei, priva degli anticorpi del caso, da innamorata entusiasta diventa una prigioniera, sempre più svilita rischia seriamente di perdere del tutto la forza di dare calci nel sedere a raffica e liberarsi nella sua stessa casa da un narcisista pestilenziale ma abile oratore, paralizzata dalle parole di lui, perfino al telefono.

Polvere è tratto da una pièce teatrale di Saverio La Ruina, sceneggiatore del film insieme al regista Romagnoli. La Ruina è un attore/autore formatosi sul palcoscenico, e infatti la storia ha una struttura e un linguaggio teatrali, non cinematografici. Il che però, grazie alla qualità della recitazione e al giusto dosaggio dei primi piani, non ne diminuisce affatto la tensione sul grande schermo. In molti momenti ci ricorda, a modo suo, certi meccanismi delle (s)torture psicosentimentali di Angoscia (Gaslight, 1944) di Cukor, con la coppia Charles Boyer-Ingrid Bergman: anche in questo film di matrice teatrale la vittima è molto più giovane del carnefice, il quale sa come alimentare il senso di inadeguatezza della donna, fino a bloccare ogni reazione alle violenze per la paura di non essere amata. Del resto è da quel film (anzi: dall’originale teatrale) che proviene il termine gaslighting, o manipolazione psicologica maligna.
Le sequenze finali di Polvere, invece, quelle in cui Roberta Mattei resta patologicamente aggrappata al telefono, osiamo ricollegarle idealmente al monologo (o meglio, al dialogo per voce sola) La voce umana di Jean Cocteau (1930), un classico del teatro rinverdito in tante versioni cinematografiche, tra cui le più recenti di Edoardo Ponti con la madre Sophia Loren (2014) e di Almodóvar con Tilda Swinton (2020).
“Se tu non mi amassi e se fossi furbo, il telefono diventerebbe un’arma spaventosa. Un’arma che non lascia tracce e non fa rumore.”
da: La voce umana, di J. Cocteau

- Il film esce in sala con le anteprime di Roma il 25, 26 e 27 ottobre
– 25.10.2021
Rispondi