La scelta di Anne – L’Événement, di Audrey Diwan (FR 2021)

di Laura Pozzi

Nei sogni, e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gl’uomini – io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. Mi limito a dir questo, perché, a proposito dell’aborto, ho cose più urgenti da dire.”

Pier Paolo Pasolini

Non è la prima volta che un film basato su una tematica spinosa e controversa come l’aborto clandestino conquista il premio più prestigioso ad un festival del cinema. Era già accaduto  nel 2004 con Il segreto di Vera Drake di Mike Leigh premiato con il Leone d’oro e tre anni più tardi con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni dell’ allora semisconosciuto Cristian Mungiu, che un po’ a sorpresa conquistò la Croisette portandosi a casa una preziosa e meritatissima Palma d’oro. Senza dimenticare la cinica e raggelante Marie Latour, la “fabbricante d’angeli” interpretata dalla vibrante Isabelle Huppert premiata a Venezia come miglior attrice nel 1988 per il feroce e pulsante Un affare di donne, di Claude Chabrol. Diciassette anni dopo la storia si ripete con L’Évenément, (tradotto in Italia con un edulcorato La scelta di Anne) di Audrey Diwan, giornalista, sceneggiatrice e regista al suo secondo lungometraggio. Una pellicola interamente basata sul racconto/monologo di Annie Ernaux, scrittrice francese fra le più autorevoli e significative del nostro tempo. In poco più di cento pagine la sua penna affilata come un bisturi  trova il coraggio, complice l’attesa di un verdetto sull’AIDS, di tornare ad un passato cronologicamente distante, ma dolorosamente partecipe, incentrato su un evento rimosso, avvenuto e consumato molti anni prima tra la solitudine, l’indifferenza e l’emarginazione di una società bigotta e conformista che non consentiva alle donne di operare sul proprio corpo una scelta legittima, seppur discutibile.

Siamo nel 1963, l’approvazione della legge Veil sull’interruzione di gravidanza è ancora un miraggio e in Francia l’aborto è considerato un crimine punibile con detenzione e sanzioni pecuniarie. Alle giovani donne in attesa non resta che affidarsi alle rischiose e talvolta fatali sonde delle fabbricanti d’angeli. Una volta scoperta la gravidanza Ernaux  non ha dubbi: deve assolutamente rimuovere quell’”ostacolo” che rischia di annientarla nell’anonimato di una classe sociale debole e precaria, compromettendo gli studi letterari e la  futura carriera d’insegnante. Nessun dilemma morale sembra sfiorarla, le emozioni sono sospese, cristallizzate, nel suo racconto “amorale” nessun dettaglio viene risparmiato, le parole incidono e feriscono come fendenti. Attraverso una serie di brevi paragrafi ricuce con precisione chirurgica i frammenti di  un’esperienza umana totalizzante, vissuta dall’inizio alla fine attraverso il corpo. Come confessa apertamente: “Non sapevo se ero stata ai confini dell’orrore o della bellezza. Provavo un senso di fierezza. Forse la stessa dei navigatori solitari, dei drogati e dei ladri, quella di essersi spinti fin dove gli altri non oserebbero mai andare. Può darsi sia qualcosa di quella fierezza ad avermi fatto scrivere questo racconto.” Un racconto per certi versi irritante, respingente, dolorosamente crudele, straziato dalla fredda determinazione con la quale la scrittrice vuole “liberare” il suo corpo da quel danno, quella sciagura che nonostante gli innumerevoli tentativi di aborto non intende “lasciare la presa”. Un libro emotivamente poco agevole, ma comunque basato su un’esperienza reale, estrema e definitiva. Si può muovere qualsiasi critica a Ernaux, ma di certo non può essere tacciata di ipocrisia. Nelle sue pagine trasudano un’urgenza e una (dis)umanità che non cercano assoluzione, ma condivisione attraverso l’ausilio della scrittura. “Aver vissuto una cosa, qualsiasi cosa, conferisce il diritto inalienabile di scriverla.”

Ma non sempre di filmarla verrebbe da aggiungere, soprattutto dopo aver visto questo film inspiegabilmente premiato con un Leone d’oro “di tendenza”, ambiguo e perfettamente allineato ai canoni di una società fintamente inclusiva. Tanto da volerlo proiettare nelle scuole e senza alcun divieto. Al confronto la censura inflitta a La scuola cattolica o a Titane hanno la stessa credibilità di una puntata di Scherzi a parte. Dwian (anche lei con un’interruzione di gravidanza legalizzata alle spalle) tradisce completamente lo spirito del racconto, abbraccia la dimensione puramente fisica della storia, confezionando un film fortemente ideologico portatore di un messaggio di libertà ipocrita e conformista, dichiaratamente pro aborto.Ognuno può rapportarsi come vuole sull’argomento, ma laddove il vissuto della scrittrice in tutta la sua implacabile crudezza poneva solidi basi di riflessione, il film con la sua velata supponenza lascia francamente perplessi. La questione della scelta qui non c’entra nulla, non è certo attraverso la devastante esperienza dell’aborto che una donna rivendica e conquista la propria libertà. Quello che lascia totalmente sconcertati è l’assoluta mancanza di umanità da parte di una protagonista incapace di porsi una domanda, di legittimare un dubbio, di avere un fugace ripensamento.

In questo film cupo, ruvido, volutamente claustrofobico (girato nel formato 4:3) plasmato sul volto glaciale di Anamaria Vartolomei e su un corpo più volte martirizzato (si pensi al tentativo di aborto tentato con un ferro da maglia o all'”espulsione finale” nel water ) si compie un inquietante processo di emancipazione femminile/femminista. E mentre quel bambino mai nato continua a crescere e a reclamare il suo diritto alla vita, la regista continua nel suo personalissimo mantra: “Non è un film sull’aborto, ma sulla libertà delle donne“. E’ quasi grottesco pensare come i migliori film sull’argomento siano stati realizzati da uomini. Basta confrontare la pellicola di Mungiu per capire come l’aborto rappresenti sempre una sconfitta e mai un baluardo di libertà. Anche se il diritto di scelta resta comunque irrinunciabile. L’aborto per una donna non è mai una conquista, ma una ferita  profonda nel corpo e soprattutto nell’anima. Tuttavia l’immagine più nitida ed eloquente la dobbiamo ancora una volta alla diretta interessata, Annie Ernaux che dopo l’agognata liberazione ammette:“E’ una scena senza nome, la vita e la morte allo stesso tempo. Una scena di sacrificio.”   

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