di Laura Pozzi

Sesto lungometraggio diretto e interpretato da Francesco Nuti, Donne con le gonne esce nelle sale italiane il 20 dicembre 1991. Campione al box office, il film (che ufficializza fra l’altro la separazione da Gianfranco Piccioli, storico produttore dai tempi di A ovest di Paperino) incassa la bellezza di 24 miliardi di lire posizionandosi al terzo posto nella classifica finale della stagione cinematografica 1991/92 preceduto da Robin Hood principe dei ladri e Johnny Stecchino. In assoluto l’opera più remunerativa di Nuti, ma anche la più cupa e “lunare” nonostante l’abbagliante e onirica ambientazione in Val D’Orcia. Aspramente osteggiato e duramente criticato da una platea di addetti ai lavori – già in tempi non sospetti – posseduti dal morbo di un politicamente corretto che avrebbe dilagato in maniera preoccupante negli anni a venire, il film fu tacciato di misoginia e maschilismo. Ma contro ogni previsione fu amato dal pubblico senza riserve. Questa frattura scomposta tutt’altro che sanabile segnerà in modo indelebile la parabola artistica, ma sopratutto umana di un artista puro, lungimirante, dal talento cristallino, baciato da fama e successo, ma irrimediabilmente sopraffatto dai suoi demoni interiori. Un cocktail invitante se assunto in piccole dosi, altrimenti una debacle dalle proporzioni devastanti che troverà il suo apice/abisso tre anni dopo nel clamoroso flop di Occhiopinocchio.

La storia inizialmente pensata per Nuti solo regista nasce dalle ceneri di un antico soggetto scritto agli inizi degli anni novanta e incentrato sull’incontro di un uomo con donne diverse: una hippy, una manager di successo e una irriducibilmente segnata dalle ideologie. Nella sceneggiatura finale le donne si riducono ad una, Nuti diviene attore protagonista e il vecchio script lascia come unica eredità un titolo mai così emblematico. Renzo (Francesco Nuti) e Margherita (Carole Bouquet) sono una coppia decisamente lontana dai canoni manzoniani se non fosse per la vocazione sottilmente romanzesca di cavalcare il tempo attraverso i tumulti di una lunga e tormentatissima storia d’amore che si protrae fino ad un improbabile 2035. Tutto inizia a cavallo degli anni ‘50, ma sullo schermo la storia comincia all’interno di un’aula di tribunale dove Renzo Calabrese, un odontoiatra quarantenne dall’aria mite e dall’andatura dinoccolata viene scovato, arrestato e processato in seguito ad un rocambolesco blitz della polizia. Le accuse a suo carico sono: violenza morale, violenze fisiche ripetute e sequestro di persona ai danni di Margherita Mori. L’accusa chiede la pena massima prevista dal Codice, mentre la difesa nella persona del sontuoso avvocato/narratore Gastone Moschin invita a ripercorrere e a smussare gli angoli alle irregolari vicissitudini amorose di un uomo maldestramente fuori controllo, surreale e conservatore che ha commesso il “crimine” di amare una donna, di idealizzarne la gonna per cristallizzarla definitivamente in quel “ruolo” vagheggiato nella sua mente infantile di eterno ragazzino.

Renzo e Margherita s’incontrano in un rovente pomeriggio d’estate nel pieno degli anni settanta. Lei bellissima e randagia figlia dei fiori dai tenebrosi occhi smeraldo è in fuga dalla sua compagna, mentre lui dopo averle caricate entrambe nella sua 126, si ritrova all’interno di un casolare in compagnia di strani personaggi dediti a droghe e allucinazioni. Dopo una notte di passione Margherita mette subito le mani avanti: per lei è stata solo un’avventura priva di significato. Renzo sempre più spiazzato dall’incoerenza di quella donna “fuori ruolo” non può che soccombere, ma il destino di entrambi è ormai segnato. I due si reincontrano anni dopo, quando Margherita ricercata per favoreggiamento e terrorismo invoca il suo aiuto. Renzo cede ancora una volta, il legame si rafforza portandoli ad un’esplosiva convivenza, a un matrimonio claudicante e infine a un’inevitabile richiesta di divorzio. Ma Renzo non accetta di deformare e distorcere la sua idilliaca visione di coppia, quindi sequestra Margherita all’interno di uno sperduto e remoto casale. Con una catena legata alla caviglia, la donna è costretta ad accettare quel ruolo tanto agognato dal suo ex marito. Eccola allora, girare per casa, preparare la cena, stirare la biancheria, ma soprattutto attendere il ritorno del suo uomo dopo un’intensa giornata di lavoro. Le conseguenze non si fanno attendere, ma la storia tra i due è tutt’altro che finita. Il film strizza l’occhio(pinocchio) a molto cinema americano, i riferimenti sono molteplici, da La guerra dei Roses, ad Attrazione fatale,(lo scontro fisico dopo la notte da scambisti, non può non ricordare quello molto più cruento tra Glenn Close e Michael Douglas) ma non solo. L’immagine di una donna libera, emancipata, legata mani e piedi ai bordi del letto era già stata ampiamente “contemplata” da Pedro Almodóvar in Légami!, uscito qualche tempo prima. Ma quella “stravaganza” fu in parte tollerata e compresa perché trattandosi dell’eccentrico Pedro e della lontana (ma non troppo) Penisola iberica, non destava clamore o peggio ancora preoccupazione. E poi perché in quel caso il protagonista, Antonio Banderas, era uno psicopatico appena uscito dal riformatorio. Con Nuti il discorso è un tantino più complesso: siamo nella benpensante e bigotta Italia, Renzo è un personaggio pacato, rassicurante, tradizionalista, insomma il vicino di casa ideale. Nuti fino a quel momento è per i produttori la “gallina dalle uova d’oro”, una specie di Babbo Natale chiamato a monetizzare le feste con la sua stralunata comicità. Mostrare una donna incatenata, servile e sottomessa è un affronto inaccettabile che va rispedito al mittente. La critica non ci pensa due volte, mentre il pubblico forse perché “a Natale puoi” decide di premiare quella pellicola anomala, controversa, iperbolica, ma di una sincerità disarmante. Nuti come sempre ci mette la faccia, spingendosi verso un futuro sempre più nebuloso.

La vera catena che comprime e fa riflettere non è tanto quella legata alla caviglia di Carole Bouquet, ma quella di chi, vittima di slogan e luoghi comuni, non osa oltrepassare le apparenze. Un po’ come per Roberto Vecchioni, accusato di sessismo per il contestatissimo brano Voglio una donna. All’epoca si gridò allo scandalo, quando bastava semplicemente ascoltare la canzone fino in fondo per capire come una donna per sentirsi tale poteva tranquillamente tralasciare e fare a meno di atteggiamenti e rituali tipicamente maschili. Perché tra i tanti valori da recuperare, ma sopratutto da difendere c’è proprio quello di una femminilità a volte volutamente negata. E in fondo ha ragione Renzo quando dice a Margherita che non c’è nulla di mostruoso nel volere una donna che qualche volta la sera invece di pensare al lavoro aspetta il suo uomo per cena. Sentimento che in una storia d’amore dovrebbe essere reciproco. Ma Nuti in una commedia dove si ride tendenzialmente poco (anche se alcune scene restano cult come quella al posto di blocco, quella all’ospedale psichiatrico col conte Ugolino, o con gli scambisti Cinzia Leone e Antonio Petrocelli) e che sfiora tematiche scomode e importanti come il terrorismo, non risparmia neppure se stesso. Le accuse di misoginia a quel tempo vennero prese sul serio, oggi probabilmente un film del genere non solo verrebbe frainteso, ma addirittura censurato. Poco male perché nonostante l’invisibilità a cui è stato destinato (sopratutto dai palinsesti televisivi) resta un’opera incredibilmente profetica dal coraggio e dalla modernità sconcertanti, impreziosita da un piccolo miracolo finale: quello di riuscire a vedere e non soltanto immaginare un Nuti ormai anziano, ma ancora estremamente perplesso e completamente perso nelle mille contraddizioni dell’incorreggibile Margherita.
Rispondi