di Laura Pozzi

“La vita è una perpetua violenza. Ne so qualcosa.
Non solo per aver vissuto qualche tempo negli Stati Uniti, ma per essere rimasto profondamente polacco: quando si nasce in Polonia all’epoca in cui sono nato io, non si può mai dimenticare la legge della violenza.”
Roman Polanski
Il pianista, sedicesimo lungometraggio diretto da Roman Polanski è senza dubbio uno dei film più potenti e significativi sulla tragedia della Shoah. Vincitore nel 2002 della Palma d’oro al festival di Cannes e di tre premi Oscar (miglior regia, miglior attore protagonista Adrien Brody e miglior sceneggiatura non originale Ronald Harwood) l’anno successivo, il film rappresenta un progetto da lui fortemente voluto e lungamente accarezzato. Polanski nasce a Parigi nel 1933, da genitori di origine polacca e torna a Cracovia tre anni dopo per sfuggire al clima di asfissiante repressione nei confronti degli ebrei. Una scelta obbligata, dettata dalla disperazione, ma resa fatale dall’occupazione nazista della Polonia nel 1939 dove verranno emanate le odiose leggi antisemite che culmineranno nella mostruosa “soluzione finale” ideata dai nazisti. A differenza dei suoi, riuscirà miracolosamente a fuggire e a sottrarsi alle deportazioni, mentre la madre perirà nei lager e il padre tornerà dopo anni di prigionia. Un’ attesa logorante, espressione inenarrabile di un’ infanzia oltraggiata e orribilmente sfigurata che lascerà cicatrici indelebili sul destino di uno dei registi più controversi del cinema moderno. La decisione di affrontare e rivivere in prima persona il dramma più sconvolgente (insieme alla morte di Sharon Tate) della sua esistenza inizia a concretizzarsi dopo la lettura de Il pianista, libro autobiografico scritto nel 1946 da Wladyslaw Szpilman che ripercorre gli orrori subiti durante le persecuzioni naziste.

Il breve lasso di tempo intercorso tra la fine della guerra e la scrittura dell’opera fornisce a Polanski il “movente” giusto per rileggere o meglio documentare con massimo rigore e necessario distacco le atrocità e la follia umana di cui era stato suo malgrado protagonista. L’accurata e lucida testimonianza offerta da Szpilman si sposa alla perfezione con un desiderio sempre vivo, ma affievolito per mancanza di materiale “appropriato”. Szpilman (Adrien Brody) è un giovane e affermato pianista di origine ebraica, un “essere musicale” armonioso e pacato in completa simbiosi con il suo piano. E’ il 3 settembre 1939 quando le bombe irrompono nello studio di registrazione di Radio Varsavia spezzando di colpo l’incanto creato dalle sue mani sul Notturno in Do Diesis minore di Chopin. E’ l’inizio della Seconda guerra mondiale e dell’invasione nazionalsocialista della Polonia. Dai cartelli esposti sulle vetrine dei negozi che vietano l’ingresso agli ebrei, all’esibizione della stella di David come attestato d’inferiorità il passo è breve e facilmente replicabile. L’orrore mostra via via il suo vero volto compiacendosi di tanta spregiudicata efferatezza. Violenza, atrocità, sopraffazione, morte. Ma sopratutto annientamento fisico e morale, un processo di disumanizzazione promosso ai danni di un popolo sempre più inerme e rassegnato.

Szpilman non fa eccezione, segregato insieme alla sua famiglia tra le mura del ghetto, precipita all’interno di un girone infernale fino a quel momento inconcepibile. Riesce a sfuggire al treno della morte, ma da quel momento in poi diviene un essere invisibile, un corpo offeso e dilaniato, un’anima in disfacimento privata della sua dignità sempre più indifferente e assuefatta alle leggi criminali dei carnefici. Costretto a nascondersi, a umiliarsi e a fingersi morto, fra i vari strumenti di tortura messi in campo dai nazisti, troverà ancora una volta nel pianoforte lo strumento di salvezza che oltre a preservarlo da fine nota, gli consentirà di filtrare l’orrore con uno sguardo diverso, meno scontato e più obiettivo. L’incontro inaspettato tra macerie e distruzione con l’ufficiale tedesco Wilm Hosenfeld (Thomas Kretschmann) rimasto rapito dalla sua esecuzione al piano gli garantirà la sopravvivenza e la prosecuzione della sua carriera fino alla morte, avvenuta il 6 luglio del 2000.

Polanski nonostante l’orrore che lo circonda realizza un film terribile, ma pieno di speranza. Tuttavia si tratta di una speranza sostanzialmente diversa da quella finemente edulcorata nello spielberghiano Schindler’s list. Szpilman (un Adrien Brody superbo nell’aderire con emaciata rassegnazione al suo personaggio) non deve la sua sopravvivenza ad una lista, ma alla sua passione per l’arte e per quella musica che anche nei momenti peggiori riesce a sfiorarlo e a far danzare le sue dita su tasti immaginari. Per tutto il film riesce incredibilmente a schivare e a sfuggire il nemico, fino a quando scesi ad uno ad uno tutti i gradini dell’inferno se lo ritrova davanti. La fine sembra inevitabile, ma tra quei due uomini così diversi si frappone quel piano, artefice di un incredibile sortilegio, capace di ribaltare il loro destino. Hosefeld morirà infatti qualche anno più tardi in un campo di prigionia sovietico, mentre Szpilman verrà liberato (dopo aver rischiato nuovamente di morire per colpa di un cappotto) di lì a poco. La potenza della musica, la sua straordinaria bellezza riescono a compiere un miracolo, trasformando un incontro sbagliato in un momento di comunione fra due individui resi disumani (per ragioni diverse) dalla “banalità del male”. Splendida e magistralmente evocativa la scena dell’esecuzione al piano di Szpilman che con timore e sacrale pudore torna a spingere su quei tasti creduti perduti per sempre. Hosefel nell’ascoltare quelle note sembra sospirare e allentare la presa: anche l’inferno può essere trafitto da bagliori di speranza.

Polanski resta fedele al libro, pur rilevando alcune difficoltà nella trasposizione sul grande schermo. Le affinità con la sua vicenda personale sono innumerevoli e il durissimo lavoro di sceneggiatura fatto di foto, immagini e filmati girati dai nazisti lo spingono a non oltrepassare il limite dell’indicibile. Lascia partire le sue vittime, decide di non seguirle fino ad Auschwitz, ma di aggrapparsi a quel corpo “clandestino” che gli consente di spiare l’orrore e di raccontarlo nel modo più sincero possibile. L’obiettività è certamente uno degli elementi sul quale il regista “insiste” di più: non tutti i tedeschi erano infatti complici di quell’orrore e non tutti gli ebrei erano a difesa del proprio popolo. Molti di loro, convinti di farla franca collaboravano spietatamente con i nazisti in attesa di un’improbabile “ricompensa”. Polanski adotta una stile asciutto, rigoroso privo di ossessioni formali e inutili spettacolarizzazioni. Si limita a riportare i fatti, a filmarli senza enfasi, lasciandoli esprimere attraverso un linguaggio incomprensibile. Impossibile spiegare o peggio ancora “addolcire” un evento storico così orribile e mostruoso, ma non per questo irripetibile perchè come scrive Italo Calvino a conclusione de Le città invisibili:
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio“.
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