La Dolce Vita, di Federico Fellini (1960)

di Paola Salvati

Sessant’anni fa usciva nelle sale La Dolce Vita di Federico Fellini. Con una grande prova di regia, ha regalato al cinema italiano un’opera innovativa e dirompente che ha segnato un’epoca, ‘parametrando’ per sempre uno stile di vita frivolo e dissoluto. Una pietra miliare, a cui si farà riferimento in altri film successivi, fino a veri e propri ‘remake’, come “La grande bellezza” di Sorrentino, premiato con l’Oscar. Lo schema narrativo tradizionale lascia spazio a quello “picassiano”, come lo definisce lo stesso Fellini. Fortemente contestato nel giorno della sua prima a Milano, destò enorme curiosità nel pubblico e fece registrare incassi record in poco tempo. Un successo che valicò i confini nazionali e che consacrò Fellini come uno dei più importanti registi del mondo.

Nel rivederlo oggi, non ci si può aspettare di rimanere scioccati. Dobbiamo collocarlo nel momento storico in cui prese vita per capirne la novità. Ciò che rende attuale un’opera di così grande impatto visivo e morale sta nel fatto che ancora oggi affascina, provoca e stimola emozioni.

L’apparente serenità che nella prima scena pervade una Roma assolata e con nuovi quartieri in costruzione, è la stessa che vediamo nel bel Marcello, mentre sorvola la capitale a bordo di un elicottero, insieme al suo collaboratore e fotografo Paparazzo, e scambia saluti con alcune donne allegre e spensierate, avvistate su una terrazza.  Senso di pace amplificato dalla visione della statua del Cristo, trasportata verso il Vaticano da un velivolo che li precede.

Negli episodi che seguono, tale sensazione lascia il posto al disincanto, stampato sul volto del protagonista. Il suo tono di voce costantemente pacato, rappresenta perfettamente lo spirito spento di chi vaga da una situazione all’altra, da una donna all’altra, senza una vera motivazione, senza entusiasmo, nel piattume di una vita priva di stimoli. Eppure Marcello Rubini è un giornalista, sempre a caccia di storie da pubblicare sui rotocalchi; si trova coinvolto in prima persona in avvenimenti di cronaca; frequenta i “salotti buoni” della città, i locali più in voga e passa le sue serate in via Veneto, punto di ritrovo di divi del cinema internazionale, intellettuali, scrittori, che si mescolano ai ricchi, ai nobili romani e agli invadenti fotografi. Invece nulla lo scuote, tutto sembra scorrere senza lasciare traccia.

Una falsa calma anche quella che lui riserva ad Emma, sua fidanzata, che mal tollera il suo modo di vivere e il lavoro che lo allontana da lei, ogni giorno di più. Arriverà il punto in cui l’infelicità che lei prova e il suo fare persecutorio porteranno Marcello a reagire per la prima volta nel film, ribellandosi in modo deciso alla gabbia di un amore egoistico.

Personifica la noia data dall’agio, Maddalena, amica di Marcello, segretamente ma in modo svogliato innamorata di lui. Simili, forse troppo, vedono l’uno negli occhi dell’altro la stessa inquietudine e l’impossibilità di liberarsene.

Il rifiuto della realtà è tale da portarlo ad innamorarsi perdutamente, in un solo giorno, di una bellissima diva hollywoodiana: la svedese Sylvia, a cui rivolgerà parole piene di poesia, che lei non comprenderà. I suoi occhi si illuminano e per un breve istante quell’apparizione lo fa sentire vivo. L’iconica scena del bagno nella fontana di Trevi, non è altro che l’invito a realizzare il suo sogno, a lungo sopito, di poter essere se stesso, liberamente.

Il suo sguardo prende vita ancora una volta quando incontra Paola, una giovanissima cameriera, il cui candore e la cui innocenza riescono a catturare la sua curiosità. Guizzi di vita, scaturiti per motivi diversi e da donne diverse, durati troppo poco per poter rappresentare la svolta. Rientrerà inesorabilmente nella routine della dissolutezza, ora più di prima, risucchiato nella spirale delle compagnie viziose, per le quali prova disgusto, come in un girone dell’Inferno dantesco.

Quello che mi ha colpito durante tutta la visione è la voce: c’è sempre una donna che chiama ‘Marcello’. Serenità e allegria: la voce delle donne sul terrazzo all’inizio del film cercano di attirare la sua attenzione, ma lui non le distinguerà. Le voci sono festose e volutamente connesse all’immagine salvifica del Cristo. Responsabilità e vincolo: la voce di Emma che cerca in modo ossessivo di richiamarlo ai doveri di un legame stabile. Inquietudine vana: la voce di Maddalena che proviene da un luogo lontano, rispetto alla stanza in cui si trova lui, fa pensare all’effimero e all’inutilità. Libertà: la voce di Sylvia  dice: “Marcello! Come here!” e suona come un’esortazione a vivere privo di condizionamenti, in amore e non solo. Salvezza: la voce di Paola, nella scena finale della spiaggia al mattino presto, che da lontano lo chiama nel tentativo di farsi riconoscere. Ma dopo una notte di bagordi, lui è troppo ubriaco e stanco e col rumore del mare non sente e non la riconosce. Le fa un cenno, ultimo e definitivo saluto alla parte pura della sua anima.

Nonostante il senso di tristezza che lascia, nonostante si dipinga una vita tutt’altro che dolce, non ho mai visto pellicola in bianco e nero avere più colore. Fellini, che oltre alla regia ne cura anche soggetto e sceneggiatura, per la prima volta passa dal neorealismo ad una dimensione onirica, evoluzione che raggiungerà il completamento in 8 ½. Il simbolismo che utilizza è aiutato nell’impatto visivo dalla forza delle musiche di Nino Rota, che accompagnano ogni variazione di scena. Dirige magistralmente Anouk Aimée, Anita Ekberg, Yvonne Fourneaux, Valeria Ciangottini e il bravissimo protagonista Marcello Mastroianni, tra le strade e le antiche rovine della Città Eterna, portando in scena delle maschere, dei saltimbanchi, creando un’atmosfera legata alla vita circense che da questo momento verrà definita “felliniana”.

Alberto Sordi in un’intervista ricorda cosa gli disse il suo amico Federico ad inizio carriera: “Albe’, diventerò un grande regista, uno dei più grandi al mondo!”. Sognava, Fellini, ma così intensamente da riuscire a trasformare quel sogno in realtà.

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