di Bruno Ciccaglione

Quando a cavallo tra il 1973 e il 1974 Armando Trovajoli si mette al lavoro per la colonna sonora di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, i due hanno già lavorato insieme molte volte. Nonostante la differenza di età (il musicista era di 14 anni più vecchio del cineasta), il rapporto che li legherà sarà strettissimo e di grande sintonia artistica e umana.
Non sempre alla colonna sonora (intesa in senso ampio, come l’insieme di tutti i suoni, quelli realistici come quelli musicali) si dà il rilievo che merita, ma ci sono casi in cui il ruolo della musica è così rilevante nel creare la suggestione complessiva di un film, da far emergere il nome del compositore accanto a quello del regista (e a volte anche viceversa). Sia nel cinema mondiale (da Hitchcock-Herrmann a Spielberg-Williams), che nel cinema italiano (Fellini-Rota, Leone-Morricone, Piccioni-Rosi), quando tra il regista e il compositore si realizza una particolare sintonia artistica, i film ne risultano particolarmente arricchiti. La coppia Scola-Trovajoli rappresenta indubbiamente una delle collaborazioni più riuscite e durature di tutta la cinematografia italiana.

Scola amava Trovajoli sin da bambino, quando alla radio il musicista fu tra i primi a portare gli standard del jazz in Italia. Per questo, sin dal suo primo film ha sempre voluto che le musiche fossero realizzate da quello che definiva un suo “amico da prima ancora che ci conoscessimo”. In effetti Trovajoli realizzerà le musiche per tutta la filmografia di Scola (tranne in un caso, per impegni concomitanti), proponendo una sorprendente varietà di ambientazioni sonore.

Trovajoli apparteneva a quel gruppo di musicisti che introdussero il jazz sia nella cultura degli italiani del dopoguerra che nel cinema: gli amici Piero Piccioni e Piero Umiliani sono i più famosi tra i colleghi e jazzisti che nel cinema hanno trovato spazio per sviluppare le loro idee. Trovajoli si distingue forse da molti suoi colleghi jazzisti, proprio per aver comunque coltivato in modo approfondito e ininterrotto anche la propria formazione classica, completando gli studi a Santa Cecilia e poi dedicandosi sempre anche alla musica colta.
Sarà forse questa determinazione a frequentare ambiti e contesti diversi a formarne l’approccio. Il tratto tipico di tutta la sua carriera tra musica, cinema, commedie musicali, musica leggera e direzione d’orchestra, infatti, è sempre stata la capacità di combinare mondi musicali e riferimenti i più disparati, anche rinunciando, nel suo lavoro per il cinema, a costruire quei cliché che gli garantissero una riconoscibilità facile, adattandosi invece sempre al tipo di atmosfera più funzionale al film.

In C’eravamo tanto amati tutte le sue capacità creative, la ricchezza e la varietà della sua cultura musicale si manifestano a pieno. Il tema principale inizia vedendo come protagonista un organo che evoca Bach ed è giocato su una scala minore. La regolarità ritmica delle note, tutte della durata di 1/8, è interrotta da una serie di pause, col silenzio ad interrompere continuamente le frasi musicali, caratterizzate da un movimento che è sia ascendente che discendente, come a sottolineare l’intreccio di una serie di pensieri che faticano a trovare un filo che apra ad un respiro più ampio.

Questo respiro più ampio del brano, preannunciato brevemente e subito interrotto nella prima parte, si realizza nel cuore del brano, per venire interrotto di nuovo, e infine nel finale. Un po’ sorprendentemente agli archi e all’orchestra si accompagnano dei bonghi ed una chitarra acustica che portano l’atmosfera in una modernità molto diversa dal classicismo evocato all’inizio.
L’altro tema importante è quello dedicato a Luciana (il personaggio centrale del film, interpretato da Stefania Sandrelli): qui alla chitarra – strumento popolare per eccellenza – è lasciata l’architettura centrale, la base, anche qui con un ruolo molto importante delle pause e dei momenti di sospensione, che consentirà poi di volta in volta a diversi strumenti e diversi temi di giocare il ruolo dei protagonisti, mantenendo però sempre la propria centralità.

In un certo senso questo è proprio quel che accade al personaggio, che viene di volta in volta affiancato dalle tre figure maschili. Luciana, pur sembrando fragile e quasi in balia di volta in volta di ciascuno dei tre amici protagonisti, rivela pian piano la propria forza e simbolicamente assurge, per tutte le donne, a vero muro portante della società che è diventata L’Italia raccontata del film.
Infine la più curiosa e geniale delle idee per la colonna sonora è un parto congiunto di Scola, che ne scrive il testo, e di Trovajoli che ne elabora la musica: la canzone E io ero Sandokan. Nessuna vera canzone partigiana infatti, poteva evocare il senso di disillusione che doveva permeare il film e per questo Scola e Trovajoli ne scrivono una “finta”, con il senno di poi, anche se poi nel film la canzone viene evocata come una delle canzoni cantate “in montagna” dai partigiani (quando dei giovani iniziano a cantarla durante il presidio di fronte alla scuola, Nicola/Satta Flores dice “E questi come la conoscono?”).

Il brano in realtà è originale, ma è capace di evocare le canzoni della Resistenza, con un bellissimo testo che però è malinconicamente intriso della consapevolezza del dopo. Scegliersi il nome di battaglia era una delle piccole piacevoli occasioni per assaporare pezzi di libertà che i partigiani avessero (se ne ricorderanno Paolo e Vittorio Taviani in una scena bellissima de La notte di San Lorenzo in cui quanti si uniscono ai partigiani si scelgono i nomi di battaglia). Che un partigiano possa aver scelto “la tigre della Malesia”, il Sandokan di Salgari, simbolo di libertà, fuorilegge, antiimperialista per eccellenza, è perfettamente credibile. La forza del testo di Scola e la semplicità della musica ne fanno un pezzo memorabile, in una colonna sonora eccezionale.
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