di Laura Pozzi

Quasi vent’anni fa sul finale di Buongiorno notte, Marco Bellocchio “liberava” l’onorevole Aldo Moro dopo 55 giorni di prigionia. In una livida mattina di maggio, sulle ipnotiche note di Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd, Roberto Herlitzka usciva dall’incubo, provava a dare un senso a quella prova assurda e incomprensibile riappropriandosi di un esterno giorno volutamente oscurato. Un sogno certo, una suggestione che per alcuni minuti osava raccontare un’altra storia, regalandoci un finale finalmente giusto, capace di riconciliarci con una delle pagine più ignobili e cupe del nostro passato recente. Ma anche un “azzardo” cinematografico che all’epoca non fu compreso da tutti per via di una finzione considerata irrispettosa verso una verità storica mistificata e poco aderente alla realtà. Tuttavia quel sogno ha continuato a risplendere nell’inconscio del regista piacentino che dopo qualche perplessità è nuovamente tornato su quella ferita ancora aperta, ispezionandone i bordi più esterni, quelli meno noti e sensazionalistici. Arriviamo così ad Esterno notte, autorevole e imponente serie tv (ma si fatica davvero a considerarla tale, dopo la visione-fiume sul grande schermo) suddivisa in due parti, ( la prima sarà al cinema dal 18 maggio, la seconda dal 9 giugno) presentata a Cannes nei giorni scorsi e prossimamente in Tv.

Impresa complessa riprendere da dove si è lasciato, ma Bellocchio fa esattamente questo. Moro (Fabrizio Gifuni) è un uomo libero, si trova adagiato su un letto d’ospedale visibilmente provato, quando davanti ai suoi occhi “sconfitti” e abbandonati si materializzano tre mefistofeliche figure dagli sguardi impassibili: Giulio Andreotti (Fabrizio Contri), Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi), Benigno Zaccagnini (Gigio Alberti). Moro li osserva con distacco, una smorfia di disgusto deforma le sue labbra, mentre una lacrima scende dai suoi occhi, rigando il suo volto scavato. Nonostante le forze siano ridotte allo stremo elabora e professa un lucido e spietato J’accuse nei confronti di quei sedicenti compagni di partito che in nome della fermezza lo hanno tacciato di pazzia nel suo disperato tentativo di convincerli a “trattare” e non hanno esitato a condannarlo a morte. Un prologo potente e apparentemente incomprensibile, ma assolutamente necessario nel tracciare i sei punti, o meglio i sei punti di vista (e quindi i sei episodi) con il quali il regista rilegge e analizza gli orrori di un’ennesima “storia sbagliata”. Bellocchio alle prese con la sua prima serie tv, ha confessato come la sua opera sia da considerarsi il controcampo di Buongiorno notte, ovvero la sua “versione esterna”, laddove il film precedente viveva dal suo interno quella lunghissima notte di quarantaquattro anni fa.

La tragedia quindi non è più interna, ma esce allo scoperto “molestando” gli attoniti spettatori (Andreotti, Zaccagnini, Cossiga, Paolo VI, e gli stessi sequestratori) nonché autori del drammatico epilogo finale. Discorso a parte merita il segmento narrativo dedicato ad Eleonora Moro (Margherita Buy) dolente e inquieta consorte (“dovrei essere grata e invece sono molto arrabbiata” riferendosi al suo matrimonio) chiusa nell’impotenza di un dolore composto e lacerante. Esterno notte parte come un sogno e si trasforma punto dopo punto in un incubo popolato da fantasmi in preda a deliri e visioni forse rivelatrici. I giorni che precedono quel maledetto 16 marzo, sono concitati, caotici, violenti. Roma è una città fuori controllo, in balia di gruppi armati pronti a tutto pur di sovvertire il sistema. Moro è un uomo mite, pacato, profondamente religioso fermamente convinto che la logica delle opposizioni sia un vizio tutto italiano e che un appoggio del partito comunista al nuovo governo non possa che allentare la tensione. Una mossa audace e spregiudicata che non piace praticamente a nessuno, da Berlinguer a Paolo VI fino agli Stati Uniti, sempre in prima linea nell’imporre la propria egemonia a discapito di influenze sovietiche. Lo statista respira e vive queste contraddizioni nella solitudine e oscurità della sua casa, si affida a piccoli gesti e rituali apparentemente insignificanti (il lavaggio delle mani, la chiusura del gas) e sembra trovare attimi di serenità solo in compagnia del nipotino Luca. Poi arriva di colpo il 16 marzo, via Fani, la strage, il rapimento e all’improvviso Moro scompare dai nostri occhi lasciandoci in compagnia degli “altri”.

Una compagnia tutt’altro che raccomandabile a dire il vero, ma l’abbandono cinematografico sapientemente orchestrato da Bellocchio non va inteso come una sfida nei confronti di uno spettatore sempre più disorientato, ma come un’irripetibile occasione di giungere ad un’inedita e sconvolgente visione d’insieme. L’assenza di Moro comincia a pesare, divenendo paradossalmente più scomoda e ingombrante della sua presenza. Cominciano a formarsi crepe sull’inossidabile superficie di una classe politica che fra depistaggi, falsi scoop e titoloni di giornali mostra il suo volto peggiore. Ma anche all’interno del gruppo terrorista capitanato da Adriana Faranda e Valerio Morucci le cose non sembrano volgere al meglio. Ucciderlo, liberarlo, trattare, pagare un riscatto, il destino o meglio l’immobile via crucis di Moro si compie nelle zone d’ombra del suo partito, in quella croce di rose e in quello scudo/corona di spine che appare sul manifesto del film. A poco servono le paranoie ciclotimiche di Cossiga o i dubbi amletici di Paolo VI. Niente e nessuno potrà mai giustificare il male compiuto nei confronti di un uomo solo e disperato, fortemente attaccato alla vita e ai suoi valori. “Cosa c’è di folle nel non voler morire?” ripete Moro nella sua ultima confessione religiosa, poco prima di essere giustiziato all’interno della Renault rossa. Nulla saremmo tentati di dire, se non fosse che proprio quel nulla decreterà la sua fine e darà modo allo Stato di preservare la sua integrità. La straordinaria umanità di quest’uomo, i sentimenti contrastanti, l’odio per Andreotti e il risentimento verso l’indifferenza del suo partito non risulterebbero così laceranti senza la monumentale interpretazione di Fabrizio Gifuni. L’attore romano Con il vostro irridente silenzio aveva già raccontato Moro a teatro, ma in Bellocchio assistiamo ad una vera e propria identificazione che riporta alla mente lo straordinario Gian Maria Volontè. Nel raccontare la storia di un uomo che muore Bellocchio non dimentica di sottolineare come quella ferita sanguinante rappresenti ancora oggi la perdita d’innocenza da parte di uno Stato incapace di rispettare se stesso. In questo senso appare emblematica , la scena in cui la bimba di Adriana Faranda esce di corsa da scuola pochi minuti dopo il sequestro e non trova nessuno ad attenderla, mentre sua madre esulta e si compiace di fronte al rapimento e alla barbara uccisione della scorta di un uomo perbene.

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