di Marzia Procopio
“Eppure un sorriso io l’ho regalato”

Inizia con alcuni fotogrammi di Splendor di Ettore Scola commentati dalla voce off del regista Laggiù qualcuno mi ama, il film documentario su Massimo Troisi presentato al Berlino Film Festival e scritto da Mario Martone con Anna Pavignano, uscito in anteprima in alcune città italiane il 19 febbraio, giorno del settantesimo compleanno di Troisi, e il 23 in tutta Italia. Un film importante, chiarisce Martone, perché dedicato a un regista di speciale grandezza che nel corso della sua breve vita – Troisi morì a soli 41 anni nel 1994 – nei suoi tre film più noti – Ricomincio da tre, Scusate il ritardo, Pensavo fosse amore invece era un calesse – sviluppò un discorso cinematografico unitario e coerente, costruito per frammenti e su un’alternanza di pieni/vuoti, i pieni e i vuoti che sono la forma della vita.
Il primo accostamento interessante che Martone istituisce è quello con la Nouvelle Vague, indicato attraverso un montaggio che alterna spezzoni di film di Troisi e di Truffaut, con cui il cineasta napoletano ritiene che Troisi abbia in comune la totale libertà: la linea aperta delle storie raccontate, le divagazioni e le malinconie, l’amore per una vita per la quale i due registi, Massimo con le diverse forme che assume e Truffaut-Antoine Doinel, si sentono inadatti. Nel cinema di entrambi tutto è insieme personale e politico, tutto è vita; e la filologia del montaggio istituisce il parallelismo tra l’indimenticabile corsa di Jules e Jim e quella di Gaetano in Ricomincio da tre, e tra l’Antoine-Léaud de I 400 colpi e il Massimo Troisi che come il suo modello francese si guarda e si parla allo specchio in diversi suoi film.

Nel documentario intervengono scrittori e registi che hanno amato Troisi: il primo è Francesco Piccolo, il quale conferma la lettura in parallelo dei due protagonisti, entrambi inetti alla vita, fragili, incapaci di stare al mondo in modo sano e produttivo, irrisolti e incapaci di amare e proprio per questo – vedremo in seguito – condannati all’amore. A proposito di amore, a scrivere il documentario Martone ha voluto Anna Pavignano, che con Troisi aveva avuto una lunga relazione sentimentale e professionale, avendo scritto con lui i tre film fondamentali della sua carriera. Nel corso della loro relazione, Anna Pavignano, torinese e femminista, influenzò Troisi nell’individuazione di un nuovo maschile, già costitutivamente esposto alle crisi e messo ulteriormente in discussione dalle nuove donne: non più quelle fatali degli anni ‘60, da concupire e inseguire, ma quelle forti, volitive, nate dagli anni ‘70. Martone la intervista commentando con lei i foglietti su cui l’attore aveva annotato riflessioni, idee, pensieri, e i materiali audio che Troisi le aveva lasciato; l’affettuosa testimonianza aiuta a comprendere l’uomo e l’autore, a scoprire la sua poetica, perché solo attraverso e nella relazione si può comprendere fino in fondo la direzione di un percorso concettuale e artistico.

Dopo l’amore, ecco il racconto delle origini: ripreso per le sue strade, che di Troisi raccontano il percorso, arriva il paese di San Giorgio a Cremano, dove Massimo, al Centro Teatro Spazio, comincia la sua avventura artistica; artistica e profondamente politica, come era tutta l’arte in quegli anni, quando gli autori scrivevano di aborto, lotte operaie, diritti. “Pace e calma” – scrive il giovane Massimo nel suo diario – “si costruiscono con la politica, non esistono a priori”. Senza giustizia sociale nessuna pace è possibile. La comunità del paese, che oggi lo onora con murales e piazze a lui dedicati, in occasione della prima costosissima operazione al cuore organizza una raccolta fondi per consentirgli di affrontare l’intervento; Troisi registrerà puntualmente il decorso post operatorio con pochissime parole ogni giorno, talvolta una sola seguita dal punto esclamativo. A San Giorgio a Cremano inizia l’avventura de “I saraceni”, il gruppo costituito con Valeria Pezza, Lello Arena, Enzo De Caro. Racconta Valeria Pezza che i tre erano una sorta di torre, Massimo al centro, loro due intorno a proteggerlo. Quando lei si defilò, nacque il trio “La smorfia”, e fu una piccola rivoluzione – osserva Goffredo Fofi – perché lo spettacolo e la cultura napoletana erano sempre stati adulti finché, con questi ragazzi che facevano satira popolare, non entrarono in scena gli adolescenti. Quando, nel 1977, per la prima volta passò in televisione la celebre “L’Annunciazione L’Annunciazione”, i tre furono portati in tribunale per vilipendio alla religione di Stato. Chiamati tutti e tre a spiegare, come autori e interpreti, quella scelta considerata oltraggiosa, Troisi volle difendersi da solo, manifestando così quella venatura ribelle che lo caratterizzò fino alla fine.

L’operazione concettuale di Martone inserisce Troisi in un tessuto storico e sociale e in un ambiente permeati dalla politica. Erano anni, spiega il regista, in cui si pensava sempre politicamente, anche quando si faceva teatro, soprattutto il teatro popolare, su cui pesavano letture che scaturivano da paternalismi e populismi che ne semplificavano la complessità e la ricchezza. Di lì a pochi anni – Ricomincio da tre è del 1981 – Troisi diventa l’attore più amato d’Italia, pur restando fedele al personaggio “irrimediabilmente contro” teorizzato da ragazzo sui suoi foglietti. Per la promozione del film, era stato invitato a Sanremo; l’attore raccontò che gli si era “concesso” di fare tutto, tranne che parlare di “religione politica terrorismo terremoto”; preso da imbarazzante indecisione – parlare di Pascoli o Carducci? – rinunciò a promuovere il film sul palco dell’Ariston. Poco male: il film ebbe un successo clamoroso, le sale erano strapiene e percorse da un “fragore di identificazione”, racconta ancora Francesco Piccolo, un’identificazione non mediata, ma diretta, dovuta al fatto che la storia di Gaetano risuonava negli spettatori direttamente e senza mediazioni culturali, fotografia sentimentale di una generazione.

Con il Gaetano di Ricomincio da tre, un uomo insicuro e indeciso che accetta di fare da padre a un figlio non suo, Troisi affronta un tema che si era affacciato alla discussione in quegli anni, l’essenza della paternità. Con l’amico Lello Arena, inoltre, in quel film struttura un duo sul modello di Eduardo e Peppino, in cui non è chiaro chi fa da spalla a chi; ed è proprio da questo movimento fluido che scaturisce il comico, perché si mette in scena un individuo che si aggrappa a un altro ancora più fragile di lui: una comicità nuova, che viene dal rapporto con l’altro. In una Napoli in cui si muovevano un’avanguardia di registi e attori, nuovi drammaturghi, nuovi gruppi musicali, a fare la rivoluzione per tutti fu Troisi, che diede voce a una generazione attraverso la sua grande capacità di scrittura e una comicità messa al servizio dei rapporti tra le persone

Divertente, ribelle e straziante, Massimo Troisi era anche umile: rifiutava i paragoni con Totò, che aveva lasciato un patrimonio culturale, e rideva di chi lo interpellava sulle questioni più importanti – “io ho fatto solo un film e mi chiedono se c’è vita sulla Luna”; fu molto amico di Pino Daniele, al quale lo univano un orizzonte ideologico e la fragilità del cuore, e voleva bene, ricambiato, a Diego Armando Maradona. Senza saperlo, con i suoi pochi film stava già influenzando altri cineasti della sua città, Paolo Sorrentino per primo, che nel documentario richiama le caratteristiche di Troisi a lui più care: la battuta che arriva con lentezza, per accumulo di tensione comica, come nell’esilarante scena di Scusate il ritardo in cui il protagonista porta da mangiare al professore del piano di sopra e, dovendo aspettare che finisca di mangiare, legge e commenta il problema di matematica che ha per protagonisti i contadini e i sacchi di farina. La risata arriva, col suo effetto liberatorio, dopo una gag lunga, che si costruisce nello snodarsi della scena.

Analisi dei sentimenti umani e comicità, questa l’arte di Troisi, che ottiene la sua cifra mostrandosi al di sotto delle sue possibilità; scelta, questa, che lo avvicinava a chi si sentiva così, come Martone ci dice mettendo in mano a due ragazzi di periferia un foglietto di Troisi: nell’inquadratura dei loro sguardi si coglie la totale immedesimazione in quanto stanno leggendo. L’effetto-Troisi è confermato da altre commosse testimonianze: il fotografo Mario Spada (“Troisi ci ha plasmato, ci ha fatto diventare diversi”), Fabio e Aurora dei “The Jackal”; per Ficarra e Picone l’anima di Massimo e quella di Chaplin “hanno lo stesso peso”, e se si applicano le definizioni junghiane di animus e anima, Troisi è attore-anima, perché infonde dolcezza. “In Troisi noi respiravamo”, aveva chiosato poco prima Goffredi Fofi: e non è forse una donna a darci il primo respiro?

Spesso insoddisfatto, soffriva perché la critica lo voleva “sociologo di Napoli”, lo vedeva indissolubilmente legato alla sua città; diviso tra un’indole introversa e una parte di sé desiderosa di partecipare alla vita sociale e politica, innamorato di Pasolini, vedeva tutti più intelligenti e disinvolti di lui; i nastri che Martone monta durante il film raccontano, tra sorriso e amarezza, un episodio dell’infanzia di Massimo che lo vede protagonista insieme al padre e può spiegare il senso di insoddisfazione che lo accompagnava sempre. Nei confronti di suo padre provava soggezione e ammirazione, e il sentimento di inadeguatezza lo riversò nell’interpretazione del figlio di Marcello Mastroianni in Che ora è di Ettore Scola, ruolo con cui vinse la Coppa Volpi nel 1989.

Come non amava che si desse per scontato e obbligatorio il legame con la sua città, così non amava il carattere cosiddetto ‘napoletano’; detestava gli attori napoletani perché sopra le righe, lavorava in sottrazione per evitare l’effetto melodramma. Odiava gli stereotipi sulla città – pizza e spaghetti, a Napoli si mangia solo questo – e proprio lui, Pulcinella e Capitan Fracassa, aveva scritto il soggetto di un film su una Napoli che deve cambiare, No grazie il caffè mi rende nervoso. Nota molto acutamente Martone che il tema del cambiamento di Napoli è intrecciato a quello della difficoltà di amare. In Pensavo fosse amore, invece era un calesse, Cecilia legge il biglietto scrittole dal mancato sposo in uno dei punti più panoramici di Napoli, San Martino; la macchina da presa inquadra lei e poi subito il golfo, come a istituire un parallelismo tra due incapacità: l’impossibilità di essere se stessi, anche quando cambiare sarebbe vitale, dell’uomo e della città.

Pensavo fosse amore, del 1991, è il suo ultimo film da regista; l’ultimo film in cui recita, invece, da lui fortissimamente voluto, è Il postino di Michael Radford. Per recitare quel ruolo così amato, non volendolo fare “con il cuore di un altro”, l’attore rimandò il trapianto. Il montatore del film, Roberto Perpignani, intervistato da Martone racconta che, sul set, tra Troisi e Noiret si era instaurato un rapporto fatto di energia palpabile, e in alcune scene la macchina da presa, che Michael Radford aveva messo sulle spalle dell’operatore, respirava: il cinema, vuole dire Martone, è un’arte collettiva in cui l’agire collettivo non toglie un briciolo di originalità e slancio alla ricerca poetica di un autore.

In questo film così desiderato (Troisi comprò i diritti del libro, produsse il film e chiamò a dirigerlo Michael Radford) sembra sciogliersi l’afasia di Troisi, nei versi del poeta dei sonetti d’amore che finalmente gli permettono di arrivare all’amore: “La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve”. Girava due ore al giorno, con l’ambulanza fuori; l’ultimo giorno delle riprese, era un venerdì, decise di registrare tutto in anticipo, anche le voci off; e il giorno dopo, sabato 4 giugno 1994, morì, il giorno prima della partenza per l’atteso intervento di trapianto, senza aver mai ascoltato la colonna sonora con cui Luis Bakalov vinse poi l’Oscar.

A chiudere questo intenso omaggio, i volti delle persone, giovani soprattutto, che in una sera di luglio a Roma, nell’arena all’aperto di Monte Ciocci (quello su cui Scola gira Brutti sporchi e cattivi) guardano attente e commosse Il postino: una comunità che si riunisce d’estate davanti a uno schermo per guardare e ascoltare il poeta cileno Pablo Neruda, morto in circostanze misteriose il 23 settembre 1973 pochi giorni dopo il golpe di Pinochet e pochi giorni prima di partire per un nuovo esilio, ci ricorda una volta di più che il Cinema e la poesia, in quanto luoghi di aggregazione e portatori di senso e bellezza, sono un fatto collettivo, cioè politico.
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