di Marzia Procopio
Quando, nel 1959, François Truffaut presenta a Cannes I 400 colpi ottenendo il premio per la miglior regia (accanto a Hiroshima mon amour e Le armi e L’uomo), ha ventisette anni, viene dall’esperienza come critico dei prestigiosi Cahiers du cinéma e ha al suo attivo solo un cortometraggio, L’età difficile (Les mistons), in cui rappresenta la banda di monelli protagonisti con la schiettezza che caratterizzerà sia Les quatre cents coups sia i successivi dedicati all’età giovanile, Il ragazzo selvaggio, che scandaglia il rapporto tra individuo-bambino e società con uno stile sobrio al limite della secchezza ma contemporaneamente percorso da un profondo pessimismo, e Gli anni in tasca, un film corale apparentemente celebrativo della gioia di vivere dell’infanzia, eppure anch’esso critico nei confronti dei modi con cui gli adulti si rapportano ai bambini. Ai Cahiers, Truffaut aveva conosciuto Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, Claude Chabrol e altri giovani critici poi divenuti registi della Nouvelle vague, un movimento che vuole innovare forme e temi di un cinema che ritiene ormai incapace di rappresentare e raccontare la contemporaneità. La sua idea era quella di girare “un film follemente ambizioso e follemente sincero”: sincero perché ispirato alla sua storia di adolescente complicato, ambizioso perché per la prima volta al centro del racconto metteva un bambino, Antoine Doinel, il cui sguardo, nelle intenzioni di Truffaut, doveva “incrociare quello dello spettatore” evitando i ricatti tipici dei film sull’infanzia e sull’adolescenza: nessun sentimentalismo, nessuna manipolazione emotiva, un tono asciutto, quasi documentaristico.

Primo episodio di una serie dedicata ad Antoine Doinel, di cui Truffaut racconterà infanzia, giovinezza, matrimonio, separazione nel corso dei quattro ‘episodi’ successivi – Antoine e Colette, nel film a episodi L’amore a vent’anni (1962), Baci rubati (1968), Non drammatizziamo… è solo questione di corna (1970) e L’amore fugge (1979) – facendo invecchiare con lui anche l’allora quattordicenne Jean-Pierre Léaud che subito diventerà il suo attore-feticcio, Les quatre cents coups narra le avventure di un ragazzino che vive in un quartiere popolare di Parigi con il patrigno Julien e la madre Gilberte. I genitori lo trascurano, più spesso lo trattano senza tenerezza, delegando in sostanza al gruppo dei pari, in particolare all’amico René, il compito di guidarlo nella crescita; anche gli altri adulti di riferimento, i suoi insegnanti, lo rimproverano continuamente, e Antoine accoglie quel giudizio, quell’etichetta di scalmanato e scansafatiche, e comincia a comportarsi di conseguenza, finché non ruberà una macchina da scrivere e verrà mandato, su richiesta dei genitori stessi, in un istituto di correzione. Truffaut ebbe un’infanzia molto simile: due genitori trascuranti – la madre lo aveva avuto da giovanissima da un rapporto occasionale, il patrigno lo aveva riconosciuto dopo averla sposata – un rapporto difficile con le istituzioni scolastica e militare: un racconto di formazione in parte autobiografico, dunque, per uno dei manifesti della Nouvelle vague.


Il titolo è un’espressione gergale francese, il corrispettivo del nostro “fare il diavolo a quattro”; la traduzione italiana non ne rende precisamente il significato, ma appare comunque calzante, perché anche più di quattrocento sono, a ben guardare, i ‘colpi’ che Truffaut spara, con questo esordio folgorante, non solo sulla storia del cinema, ma soprattutto sulla memoria visiva ed emotiva dello spettatore: perché ancora oggi questo film, a dispetto del potenziale di angoscia che un plot del genere promette, ha una freschezza e una modernità rare, che gli consentono di diventare il racconto di un’infanzia mitica, inno alla libertà e alla creatività dell’infanzia, opera autobiografica e contemporaneamente universale. Un film, disse il regista, in cui “Non tutto è autobiografico, anche se è tutto vero”.

I temi sono quelli di ogni romanzo di formazione: l’infanzia inascoltata e oppressa che sa però proteggersi da sola diventando luogo psichico di libertà e anarchia – e qui il pensiero va ai modelli dichiarati, Rossellini e Vigo, gli unici a cui Truffaut riconosceva la capacità di parlare dell’infanzia senza infingimenti e ipocrisie, mostrandone anche gli aspetti non nobili; l’opposizione tra il fantasioso mondo interiore dei bambini (Antoine non a caso si rifugia appena può nei romanzi e nei film, e Truffaut ha ben chiaro il forte legame fra cinema e infanzia) e la durezza, l’indifferenza, l’incapacità di tenerezza degli adulti; infine il passaggio all’adolescenza come preludio alla vita adulta, oggettivata nell’immagine finale del mare, oggetto sognato, mai visto prima, verso cui Antoine fuggito dal riformatorio corre; e in quella sua fuga dal mondo ostile e opprimente degli adulti verso la agognata libertà, lo sguardo del ragazzo verso il mare è lo sguardo, traboccante di diversi sentimenti contrastanti, verso l’ignoto dell’età adulta.

La ricerca della libertà da parte di Antoine corrisponde, sul piano dello stile e della scrittura visiva, alle scelte di Truffaut: l’improvvisazione realistica, quasi documentaristica, si alterna a momenti di più forte rielaborazione, mentre la macchina da presa talvolta si muove con grande rapidità e leggerezza, talvolta resta ferma, come a fare da contraltare all’ ‘iperattività’, interiore o fisica, di Antoine. Il ragazzo è presente quasi in ogni inquadratura, osservato con tenerezza nella sua impertinenza libertaria (quella di Léaud, che Truffaut lasciò molto libero); con lui, nello splendido ritiro dell’infanzia, nel mondo fantasioso a cui gli adulti, con le loro parole che distorcono e manipolano, non sono ammessi a meno che non siano Balzac, ci sono i suoi coetanei, di cui Truffaut filma con amore i volti e le gesta nelle strade di Parigi riprendendone i pensieri, sogni e luoghi che gli adulti di riferimento non sono interessati a conoscere. Fin dalla prima inquadratura veglia su di loro la Tour Eiffel, madre buona che, a differenza di Gilberte, osserva e vigila da lontano. La musica di Jean Constantine li accompagna, promette e mantiene.

Truffaut esce dagli spazi artificiali dei teatri e riprende i personaggi per le strade, in una realtà che cambia rapidissimamente come loro, rendendo con ciò evidente l’opposizione tra spazi interni, coercitivi, delle istituzioni (la casa dei genitori, la scuola, il riformatorio) e quelli esterni, liberi, dei ragazzi. ‘Dentro’, i bambini di Truffaut hanno a che fare con adulti bugiardi, livorosi, ipocriti, distratti ed egoisti, ottusi; ‘fuori’ creano un proprio universo di sentimenti e valori inaccessibile, lontano da quello degli adulti, migliore. Così Antoine, prigioniero di una realtà rigida e soffocante, trascurato da due genitori bugiardi e ipocriti (Gilberte tradisce il marito, Julien finge di ignorare le infedeltà della moglie), si strappa al mondo di adulti in cui è costretto a vivere, contrassegnato da disamore e incomunicabilità, andando alle giostre, al cinema, a spasso per la città, al teatro dei burattini (dove il regista nasconde una cinepresa per cogliere gli sguardi e le espressioni estasiate dei bambini), al mare.

I modelli di Truffaut, evidenti nella tematica e nella forma filmica, sono il Vigo di Zero in condotta e il Rossellini di Germania anno zero e di Paisà. Il cineasta francese partecipa emotivamente, senza mediazione intellettuale, senza osservare da lontano, guardando i suoi piccoli protagonisti con sensibilità ed empatia; lo spettatore vede sempre Antoine in scena, e così può identificarsi con lui (è un film hitchockiano, secondo Truffaut, perché fin da subito ci si identifica con Antoine), col suo pudore, con lo sconcerto addolorato e insieme indifferente con cui il ragazzo pare osservare da fuori la vita così com’è: a scuola, ingiustamente bistrattato da insegnanti retrivi e insensibili, nei pomeriggi con il suo migliore amico in giro per le strade della città, nelle serate a casa con i genitori, sempre uguali a se stesse fatta eccezione per quella in cui Antoine e i genitori vanno al cinema, quando ci sembra di poter intravedere una qualche speranza di felicità per questa famiglia. È la scena forse più commovente, insieme al lungo piano sequenza finale già citato, dove lo sguardo infantile di Antoine diviene improvvisamente adulto nel primo piano traboccante d’angoscia (c’è il Bergman di Monika e il desiderio, lì) davanti al mare, davanti al futuro.
Diversamente dalle fiabe, I 400 colpi non mostra come un bambino può sconfiggere l’adulto cattivo, ma come può diventare grande anche senza seguire l’esempio dell’adulto cattivo, cercando una strada diversa e cercandola da solo: nessuno, nemmeno la psichiatra del riformatorio, può aiutare Antoine, come si vede nella scena del loro dialogo, priva di controcampo quasi a rimarcarne la condizione di solitudine, eppure la strada è lì, si spalanca davanti, è nella magia dello splendido ritiro dei tredici anni, in questa capacità straordinaria dell’adolescenza di proteggere il cuore dalle brutture dei grandi, dalla loro meschinità.

Dedicato alla memoria del critico cinematografico André Bazin, figura importantissima per il regista, morto di leucemia il primo giorno delle riprese, musicato e fotografato splendidamente, Les quatre cents coups nella sua poesia è una critica feroce, puntuale, irriverente delle istituzioni educative tutte, dalla famiglia al riformatorio, incapaci di trovare un posto per Antoine pur in un’epoca colma di fermento e promesse; il film “più orgoglioso, testardo, ostinato e libero del mondo”, lo definì Godard, un capolavoro di freschezza e modernità assolute anche grazie alla magia creatasi fra Jean-Pierre Léaud e François Truffaut, che lo scelse in mezzo a centinaia folgorato dalla sfrontatezza leggera delle sue risposte. E se di Godard si dice che ha fatto della Nouvelle vague qualcosa di travolgente, è Godard stesso a dire che a renderla immortale è stato Truffaut: “Con I 400 colpi François Truffaut entra nel cinema francese moderno come nel collegio della nostra infanzia. Ragazzi umiliati di Bernanos. Ragazzi al potere di Vitrac. Ragazzi terribili di Melville-Cocteau. E ragazzi di Vigo, ragazzi di Rossellini, insomma ragazzi di Truffaut, espressione che passerà dopo l’uscita del film nel linguaggio comune. Si dirà presto i ragazzi di Truffaut come si dice i lancieri del Bengala, i guastafeste, i re della mafia, gli assi del volante, o anche per dirla in due parole i drogati del cinema”. Come dargli torto.
