Rapito, di Marco Bellocchio (2023)

di Laura Pozzi

Dopo quello di Aldo Moro affiora un nuovo rapimento nel destino cinematografico di Marco Bellocchio. E stavolta senza nessuna liberazione, reale o immaginata. Duro e pragmatico fin dal titolo (anche se inizialmente si era pensato al meno esplicito e più conciliante  La conversione) il regista piacentino dopo il successo di Esterno notte torna in concorso sulla Croisette con un film rigoroso e perturbante destinato a provocare qualche malumore negli ambienti ecclesiastici. Ma Bellocchio arrivato alla ragguardevole età di 84 anni con circa venticinque lungometraggi all’attivo non è interessato a provocare, né a scandalizzare, quanto a confrontarsi con storie scomode al limite dell’incredibile e a vicende torbide in grado di “sfidare” il mezzo cinematografico per elaborare una versione dei fatti capace di trascendere la realtà attraverso un sottofondo onirico a cui affidare un finale diverso e più illuminante.

Se per Calderón de La Barca La vita è sogno, non può dirsi lo stesso per Edgardo Mortara un ragazzino di sette anni sestogenito di una famiglia ebraica strappato ai suoi cari il 23 giugno 1858 su ordine del “Papa-Re” Pio IX. La “colpa” o meglio il movente, quello di aver ricevuto ancora in fasce il battesimo da una domestica determinata ad evitare che “finisse nel limbo” a causa di una brutta malattia che lo avrebbe portato alla morte. La “salvezza” dapprima tenuta nascosta dalla donna, ma poi rivelata per soldi all’Inquisitore avviene all’insaputa dei genitori, ma per la Chiesa si tratta di un incidente che può essere “arginato” solo ed esclusivamente attraverso una conversione al cristianesimo. Il ragazzino si ritrova così traghettato da Bologna a Roma, passando per Senigallia, in attesa di essere accolto nella nuova famiglia. Sotto la protezione pontificia, Edgardo si inoltra nel suo incubo quotidiano fatto di regole, preghiere mal recitate e immagini sacre di cui fatica a cogliere il senso. Un ambiente dove è impossibile fare bei sogni, dominato da quel crocifisso imponente e minaccioso che lo segue ovunque e gli cinge il collo come una catena.

Tuttavia ne resta in qualche modo affascinato, forse perchè nella sofferenza di quell’uomo morente inchiodato sulla croce Edgardo intravede il suo futuro annusando la ferocia di un (abuso) di potere in grado di cambiare e “fissare” il destino, magari con un sigillo rosso. Un destino non necessariamente da contestare o rigettare a priori perché nello strazio della separazione e nel disperato abbraccio materno incapace di proteggerlo e costretto ancora una volta a lasciarlo andare Edgardo accetterà un fato truccato, non tornerà mai alle sue origini, ma predicherà la fede cattolica fino al 1940, quando novantenne morirà come don Pio Mortara in Belgio nell’Abbazia di Bouhay. Siamo in un periodo oscuro, un momento cruciale della storia e  Bellocchio fa bene a sottolinearlo, le guerre d’indipendenza incombono, il potere papale ha i giorni contati, eppure Edgardo resta fedele alle imposizioni di quel papa intransigente e “padrone” (fantastico e implacabile Paolo Pierobon), lasciando trasparire un’ambiguità psicologica sulla quale Bellocchio innesta la sua analisi.

Lo smarrimento iniziale di Edgardo a contatto con la nuova famiglia viene in parte mitigato dalla presenza di Elia, un coetaneo prelevato dal ghetto, in grado di elargire preziosi consigli su come “Tocca fasse furbi” e far sorridere lo spettatore lacerando con la sua disarmante romanità quel clima plumbeo e carico di tensione. Tutto il film fotografato magistralmente da Francesco Di Giacomo si muove tra luci e (molte) ombre di chiara matrice pittorica. Un sontuoso affresco in movimento, inebriante e spietato, bellissimo da guardare, ma altrettanto arduo da metabolizzare. Bellocchio contrappone alla bellezza delle immagini, una lucida e crudele disamina sulla fascinazione del potere, sul suo uso sconsiderato e sulle inevitabili conseguenze di chi lo subisce. Nel caso Mortara non si tratta semplicemente come per Moro di un rapimento fisico, ma di una vera e propria sottrazione d’identità andata perduta per sempre nonostante la longevità del protagonista.

Sia che si tratti di ragioni politiche o religiose, il rapimento rappresenta sempre un atto definitivo da cui non si torna mai indietro, ma soprattutto da cui non si torna mai da se stessi. Il caso Mortara destò clamore e indignazione in tutto il mondo e ancora oggi la vicenda sconcerta, tanto da aver suscitato alcuni anni fa l’interesse di Steven Spielberg che aveva espresso il desiderio di trarne un film. Il progetto poi naufragato ha permesso a Bellocchio di “prendere di petto” l’indicibile storia e riscriverla insieme a Susanna Nicchiarelli tenendo a mente il libro di Daniele Scalise da cui è liberamente tratta. Supportato dalle intense interpretazioni di Enea Sala e Lorenzo Maltese nel ruolo di Edgardo il film si avvale di un cast coeso e appassionato (oltre al già citato Pierobon, ricordiamo Fausto Russo Alesi nel ruolo del padre e Fabrizio Gifuni in quello di Padre Feletti) e di una vocazione oramai imprescindibile nel cinema di Bellocchio: quella di sognare. Un sogno (ci riferiamo alla scena più significativa del film, quella dei chiodi) libero, coraggioso, necessario.     

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