‘Lazzaro felice’ (2018) di A. Rohrwacher.

di Roberta Lamonica

“…Allora il Santo aggiunse che era ormai tempo di fare la pace con gli uomini: se il lupo l’avesse osservata, senza far male né all’uomo né ad altri animali, egli l’avrebbe fatto nutrire dagli uomini di quella città per tutta la vita. Il lupo promise piegando il capo, quindi sollevò la zampa e la pose nella mano di San Francesco. Allora il santo gli ordinò di seguirlo senza timori. Il lupo lo seguì come un mite agnello…”

Alice Rohrwacher scrive e dirige Lazzaro Felice, vincitore della Palma d’oro per la miglior sceneggiatura alla 71ma edizione del Festival del Cinema di Cannes; sceneggiatura che lei stessa ha definito, nel discorso di ringraziamento, un po’ ‘bislacca’.

Ma che film è Lazzaro Felice? E’ un film un po’ ‘bislacco’ come la sceneggiatura che ne costituisce l’ossatura.

Un contadino senza passato, sempliciotto e taciturno, Lazzaro (Adriano Tardiolo), legge il mondo con l’innocenza infantile dei suoi grandi occhi, felice della felicità degli altri; bisognoso di null’altro che di appartenere alla sua comunità in una dimensione contadina antica e rurale. E di ringraziare. Sempre e per tutto. La sua comunità è un manipolo di Vinti, di contadini sfruttati che vivono lavorando come bestie da soma in una piantagione di tabacco nella tenuta dell’Inviolata (nomen omen).

C’è un po’ di tutto nella grande famiglia (un matriarcato essenzialmente) di Lazzaro: donne in amore, madri bambine (Antonia interpretata da Agnese Graziani e Alba Rohrwacher), vecchie a lutto e uomini che diligentemente lavorano fino a spaccarsi le reni. Nulla li rende più felici di condividere un unico bicchiere di vino e un tozzo di pane.

La proprietaria dell’Inviolata, la marchesa De la Luna (interpretata da una Nicoletta Braschi perfettamente a suo agio nel ruolo, nonostante abbia dichiarato il contrario) tiene i contadini in una condizione di schiavitù, ‘spiega’ e mostra alle donne della comunità santini di martiri perché la loro vita di sofferenza serva loro da esempio; tiene perennemente i mezzadri in uno stato di debito ed esporta la morte con la sua produzione di veleno. Donna crudele e anaffettiva, la marchesa è madre di Tancredi (Luca Chikovani/Tommaso Ragno), coetaneo di Lazzaro. Per Lazzaro l’incontro con Tancredi segnerà l’inizio di un’amicizia tanto profonda e sincera da spingerlo ad attraversare il tempo e offrire sacrificio di se stesso. Tancredi rappresenta il cavaliere dei poemi cavallereschi del XXVI secolo: recita l’Orlando Furioso e come Orlando prova a perdere il senno nella prima parte del film per poi rendersi conto di doverlo andare a cercare sulla luna. Quella luna che è nel suo cognome e nel suo aspetto ma che lui guarda come a un oggetto misterioso e romantico; quella luna che, nel bosco d’asfalto della città si potrà intravedere solo su una pentola di latta e su un campanello polveroso.

La Rohrwacher sceglie di girare il suo film in formato 16 mm e regala alla sua pellicola un’atmosfera opaca e dall’effetto retrò per veicolare l’idea che questa comunità viva in un non luogo e in un non tempo. Tanti i rimandi artistici nel film. Ci sono eco di Pascoli e di Millet nelle facce segnate dalla fatica di quella gente genuina e sincera ma anche di Pasolini, di Scola e dell’Olmi dell’Albero degli Zoccoli. Ma perché la Rohrwacher sceglie proprio il punto di vista di questo personaggio atipico per narrare la sua storia bislacca? Perché Lazzaro rappresenta, nelle parole della regista ‘la storia di una piccola santità senza miracoli, senza poteri o superpoteri’. Difficile non cadere nella tentazione del supereroe quando si sta per essere presi nella spirale del fanatismo religioso. Lazzaro muore, risorge dopo circa vent’anni, sposta masse d’aria e influenza tutto ciò che esse portano con sè: musica, fine dell’Arcadia, riunione della famiglia. Trova ‘vita’ nell’asfalto e si immola per amore. Lazzaro Felice è una favola.

Questa favola però perde ‘magia’ nella seconda parte del film, nel passaggio dal paesaggio aspro ma idilliaco dell’Inviolata, alla periferia cittadina nella quali le vittime del ‘Grande Inganno’ andranno a finire. Con una simbologia piuttosto riconoscibile, Lazzaro è il Buon Pastore della parabola, è Spirito Santo ma soprattutto è S. Francesco con il suo lupo. Lazzaro è il nome che risuona tra le fronde, è il Cristo che si carica la croce sulle spalle, è l’agnello sacrificale.

Se il messaggio che doveva passare è quello della possibilità di vivere una vita buona a prescindere da tutto, è possibile che molti non riusciranno a coglierlo. La marchesa De la Luna pronuncia una frase profetica nella prima parte del film ‘coloro che non rendi consci della propria condizione in qualche modo li proteggi dalla sofferenza che la coscienza della stessa porterebbe’. E quando i 54 braccianti dell’Inviolata saranno ‘salvati’ dallo Stato e quindi resi consci della propria condizione, cosa resterà loro? Null’altro che rifugiarsi in una cisterna che ricorda una capsula spaziale dove nascondersi dalle brutture della civiltà e guardare con stupore a una luna di latta per passare del tempo insieme, per non sentire il peso di vivere.

Cosa dobbiamo pensare? Che per i miserabili dell’Inviolata l’alternativa praticabile all’iniquità del mondo civile fosse solo lo stato di torpore nell’incoscienza dello sfruttamento in un mondo sospeso (ipotesi sostenuta dall’incontro di Lazzaro redivivo con il mercato nero del lavoro)? Che se S. Francesco muore il lupo torna selvaggio, che solo un Pastore ( Leader) quindi può ammansire il lupo (popolo)?

Tante suggestioni, tanta poesia e tanto talento nel film di Alice Rohrwacher, il cui metodo deve però ancora trovare una sintesi convincente che trovi un punto di raccordo alle tante istanze che propone.

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