‘Ikiru’(1952), di A. Kurosawa e “il privilegio di morire la propria morte”.

di Roberta Lamonica

“Solo agli esseri intransitivi e incolpevoli, a coloro che non muoiono la vita ma la vivono, potrà spettare il più paradossale e insieme il più ‘naturale’ dei privilegi: quello di non vivere la propria morte, ma di morirla – di morire di una morte giusta e gratuita, istantanea e incosciente.” 
Lev Tolstoj

Un anziano impiegato comunale, Watanabe (Takashi Shimura), scopre di essere malato di cancro allo stomaco. All’improvviso prende coscienza di aver passato tutta la vita a recitare un copione che lo ha visto ‘comparsa’ e non protagonista della propria esistenza e decide di fare ammenda facendo qualcosa per cui il suo passaggio sulla Terra avrà avuto un senso. Watanabe impegnerà tutto il tempo che gli rimane a perorare e sostenere attivamente la causa di un gruppo di madri che vogliono venga costruito un parco giochi dove ora c’è una discarica acquitrinosa che nuoce alla salute dei loro figli.

Norman N. Holland, nel suo saggio su ‘Ikiru’ ( 1952), di A. Kurosawa parla di questo capolavoro come di un film irrinunciabile anche e soprattutto per il suo ‘virtuosismo emozionale’. E come non condividere questa affermazione?

Una storia comune e già presente come topos in molta letteratura (Kafka, Dickens, Tolstoj, per citarne di immensi), diventa terreno per una riflessione profonda sulla vita e la morte, sulla società e la politica del Giappone della ricostruzione post-bellica. E tutto ciò mentre seguiamo l’incedere incerto e la schiena piegata sotto il peso di una vita senza senso di Watanabe, il suo volto innocuo, il suo sguardo umido e spaventato.

Watanabe, questo Everyman moderno, è un eroe tragico ed epico.

E la sua epopea si dipana nella resilienza con cui affronta l’indifferenza e l’ingordigia dei suoi simili e nel suo cercare con ostinazione quel ‘gesto eroico’ che gli consenta di “poter morire”.

Come ogni eroe epico, anche a Watanabe tocca il viaggio nell’Oltretomba e la discesa agli Inferi. Il suo accompagnatore è uno scrittore squattrinato, il Mefistofele che accompagna Watanabe/Faust nel suo viaggio nei piaceri della vita notturna e nelle sale di pachinko di Tokyo.

Ma Watanabe è un overreacher sui generis, perché i limiti che vuole superare sono quelli di una vita mai assaporata nei suoi elementi essenziali, di una vita da inetto in un uomo, invece, dal cuore nobile e grande.

Ecco perché, nel tourbillon di balli e divertimento, il suo canto fuori contesto, sommesso e strozzato “La vita è breve, innamoratevi, care fanciulle”, fa ammutolire tutti i presenti che capiscono che dietro quell’invito gentile c’è un dolore profondo e disperato e un omaggio pieno d’amore alla vita.

Quella vita che si manifesta come impulso e appetito. Tutti mangiano nel film: mangiano gli impiegati, si mangia al funerale, i bimbi nella scena finale vengono chiamati per mangiare, Toyo, la ragazza che per un po’ è nei pensieri di Watanabe, mangia in modo compulsivo e sguaiato. Anche Watanabe vorrebbe mangiare ma sembra non sappia come fare, sembra non riuscirci.

Prima di partire per il viaggio nell’aldilà (della vita notturna), lo scrittore dice a Watanabe:”È nostro dovere Vivere la vita! Dobbiamo essere ingordi di vita”.

E questo potrebbe essere il manifesto di ‘Ikiru’: la fame di vivere.

L’appetito si presenta in tutte le forme: anche come appetito sessuale, quello che spinge anche il fratello di Watanabe a pensare che egli abbia una storia con la giovane impiegata Toyo. Appetito è quello per il potere da parte del politico locale; Appetito anche per le notizie da parte dei giornalisti; Appetito la curiosità avida da parte dei suoi colleghi.

Il film è letteralmente diviso in due parti: la vita di Watanabe e la vita dopo la sua morte. Perché in Giappone la vita del defunto è mantenuta attraverso il ricordo dello stesso da parte di chi lo ha conosciuto. ‘Ikiru’ è giocato essenzialmente su contrasti: l’immobilità e la staticità delle fotografie presenti nel film (quella della radiografia, quella della moglie defunta, quella del volto di Watanabe nella veglia funebre ma anche l’acqua stagnante nella discarica), contrasta con le scene di vita notturna, con la mdp che salta e oscilla tra angoli e specchi ma anche con le scene evocate dai colleghi di Watanabe durante la veglia.

Il movimento che Kurosawa predilige è quello verticale. La macchina sale e scende. La salita è associata alla vita e alla giovinezza mente la discesa è associata alla depressione e al fallimento. E il vecchio Watanabe realizza quasi subito che il suo percorso dovrà essere un percorso di ascensione.

Kurosawa, nei momenti topici, inquadra sempre verso l’alto che si tratti di nuvole o di un tramonto. E prova fino alla fine a invitare il genere umano all’ascesa verso il Bello e il Giusto.

Il movimento contrasta con la stagnazione degli uffici e dei discorsi degli impiegati. Parlare e straparlare diventa un modo per non muoversi e non dire davvero le cose (la menzogna del medico, l’incapacità di Watanabe a parlare della sua malattia). E, alla fine, c’è Watanabe che si dondola, canta e non parla su un’altalena per bambini. Ha trasceso l’incomunicabilità da cui è stato circondato tutta la vita e finalmente il suo è un canto leggero e ‘parlante’.

Il tempo ha due velocità nel film di Kurosawa. Il tempo scorre lento nella vita quotidiana di Watanabe ed è sospeso nella sua percezione dello stesso dopo la scoperta della malattia. In una delle scene più memorabili del film, il protagonista torna a casa e punta la sveglia per il giorno dopo, salvo poi rendersi conto che quel tempo così organizzato, così gestito, non ha più senso e sciogliersi in pianto disperato sotto le lenzuola.

Eppure Kurosawa vuole che abbiamo ben chiaro che la vita fuori dal nuovo mondo di Watanabe brulica e che il Giappone sta strenuamente tentando di rinascere. Auto, autobus, treni, gente che cammina veloce, uffici comunali in continuo fermento, politici e strateghi. Il solito panorama di varia e avariata umanità, marcia e corrotta nonostante il passaggio nel cielo di qualche rara stella luminosa.

Ma quando è che Watanabe arriva a capire quale è il gesto che favorirà la sua salita verso l’Alto? Quale dovrà essere la sua impresa?

Armato della sua Durlindana, il suo cappello, nuovo come i suoi propositi, il vecchio impiegato arriva a questa illuminazione in un ristorante mentre parla con Toyo e in una stanza vicina si sta festeggiando un compleanno. È in quel momento che Watanabe sente che è come se si stesse festeggiando il suo di compleanno, anzi, la sua rinascita. E questa rinascita passa attraverso la difesa del diritto alla costruzione del parco giochi.

E nella veglia funebre di Watanabe, nel vedere il modo in cui gli sforzi di un uomo a fare la cosa giusta possano ispirare, confondere, generare rabbia o frustrare coloro che le vedono solo dall’esterno, attraverso le lenti delle loro vite non analizzate e non approfondite, viene racchiuso il cuore pulsante del film. Noi che abbiamo seguito Watanabe nel suo viaggio finale, veniamo riportati di forza nel modo dei vivi fatto di pettegolezzi e cinismo. Siamo spinti a far sì che i sopravvissuti pensino le cose in modo differente, che arrivino alle nostre stesse conclusioni.

Ed è così che Kurosawa raggiunge il suo risultato ad effetto: ‘non ci rende testimoni delle decisioni di Watanabe ma ci rende suoi evangelisti’ (R. Ebert).

Ikiru è un film che davvero può ispirare a vivere la propria vita in modo differente.

L’affermazione di Platone secondo cui ‘una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta’ ci convince a vedere Watanabe non come un povero vecchio patetico ma come ognuno di noi su quel percorso accidentato che è la vita: spaventati e attenti a evitare le buche più dure.

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