‘L’Angelo del Crimine’ – La pulsione a trasgredire tra Eros e Thanatos

di Valentina Longo

Bellezza e dannazione s’incontrano nelle anime nere di un angelo corrotto e un demone seduttore nella Buenos Aires del 1971. In questo consiste ‘L’Angelo del Crimine’, di Luis Ortega, co-prodotto, tra gli altri, da El Deseo, fondata nel 1985 dai fratelli Almodóvar.

Carlitos è un ragazzo di diciassette anni. Riccioli biondi gli cadono sul collo, pelle liscia come quella di un bambino, occhi nocciolascuro semichiusi a suggerire un’annoiata distrazione. Viso dai lineamenti delicatamente tondeggianti, labbra carnose e leggermente screpolate che spesso si stendono in un sorriso senza malizia. Un cherubino dorato spinto da un impulso criminale inarrestabile e letale.

Ramón è il classico bello e dannato. Capelli scuri, corti e ricci, basette che contornano un volto leggermente squadrato, fronte contratta in un’espressione di tormento. Gli occhi stretti e penetranti attirano l’attenzione come fossero magnetici, degli occhi chiari in cui si riflette il desiderio di chi vi s’immerge. Un’oscura tentazione mossa dal desiderio di lasciare il segno sul suo cammino.

I due ragazzi sono al centro di una storia che unisce l’amore al crimine, la passione al proibito. Vero protagonista è Carlitos, ispirato al criminale realmente esistito Carlos Robledo Puch, (una sorta di Ted Bundy argentino), un ladro che tra il 1971 e il 1972 uccise undici persone a sangue freddo. Motore della storia è l’infatuazione di Carlitos per Ramón, tenuta nascosta ma avvertita durante tutta la visione. L’elemento davvero inaspettato è, però, assistere alla totale mancanza di scrupoli per gli omicidi che Carlitos commette quasi per distrazione, senza quel pentimento che, sorprendentemente, si scorge nello sguardo del compagno.

‘L’Angelo del Crimine” racconta la violenza in un modo assolutamente non convenzionale. Secondo le parole di Ortega: “Quando ho deciso di raccontare la storia di un giovane ladro diventato assassino, ho pensato che non dovesse essere un film ripugnante, bensì piuttosto qualcosa di bello, un regalo per il pubblico”. E la pellicola assolve al suo dovere: è un film visivamente bello, dalla ricostruzione d’epoca perfetta ai costumi originali, che non stanca nel ritmo e accompagna nell’evoluzione degli eventi.

Sottolineato dall’uso, nella colonna sonora, di pezzi popolari come le versioni argentine di ‘Non ho l’età’ e ‘The House of the Rising Sun’ (nella versione del padre del regista, il cantante P. Ortega), sembra che anche il regista sia sedotto come tutti dalla bellezza del protagonista solo accennando così e non sviluppando l’eppur interessante parallelo con la storia politica argentina, la storia di un popolo che proprio in quegli anni barattava la democrazia con un’apparente ordine sociale. Un popolo immaturo, come immaturi sono Carlos e i suoi complici.

Intenso nella rappresentazione dello stato d’animo del protagonista e di chi si relaziona con lui, instaura un rapporto quasi intimo con lo spettatore.

Punta alla sregolatezza con una pistola in una mano ben ferma e lo sguardo di un ragazzo che non si è ancora accorto di essere diventato un uomo.

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