di Anna Maria Curci
Il gabinetto del dottor Caligari – titolo originale Das Cabinet des Dr. Caligari, anno di produzione 1919 – fu proiettato per la prima volta a Berlino il 26 febbraio 1920, dunque a poco più di un anno di distanza dalla fine della Grande Guerra e agli inizi della Repubblica di Weimar, alla quale anche il solo termine “cinema espressionista tedesco” è intimamente legato.
Di quel cinema espressionista Il gabinetto del dottor Caligari (la cui sceneggiatura, già pronta dal 1913, per un film che avrebbe dovuto dirigere Fritz Lang, il regista Robert Wiene si trovò come dono prezioso a firma di Carl Mayer e Hans Janowitz) è allo stesso tempo pietra miliare e punto di svolta, un balzo in avanti del quale è mia intenzione mettere in evidenza alcuni dettagli.
Se infatti il film di Wiene possiede in maniera esemplare tutte le caratteristiche del film espressionista (il collegamento al teatro espressionista, la valenza simbolica esasperata, il prevalere della forma sghemba nei fondali e il richiamo continuo alla pittura espressionista, in particolare ai quadri con scene cittadine di Kirchner, il programmatico distacco dal naturalismo), esso rappresenta altresì un momento importante di meta-riflessione sul cinema, forma d’espressione artistica che da un lato aspirava a emanciparsi, con l’apertura di vere e proprie sale cinematografiche, dalla “Wunderkammer” a poco prezzo dal baraccone da fiera e dall’altro si apriva, con questa possibilità ‘inedita’, a problematiche del tutto nuove, concernenti sia l’importanza delle operazioni di marketing necessarie per supportare il lancio del prodotto, sia l’avvio di una forma di ‘stilizzazione per le masse’, di una riproduzione in salsa popolare di temi e stilemi letterari, dal romanticismo, come sarà spiegato tra poco, così come della prosa espressionista – si pensi a Traum und Umnachtung, Sogno e ottenebramento, di Georg Trakl.
Stilemi e autenticità innovativa, riproducibilità e originalità, Schau, visione, spettacolo, e Erzählung, racconto, narrazione: il film di Robert Wiene si muove tra questi poli, condensandone la dialettica sia nell’intera architettura dell’opera sia nei singoli fotogrammi.
Come già suggerito in quell’opera fondamentale di Lotte Eisner che è Lo schermo demoniaco (prima edizione italiana 1955; l’edizione del 1983, a cura di Mario Verdone, appartiene a quei titoli per i quali vale l’esortazione “Si ristampi!”), è opportuno evidenziare il sostrato letterario del film. La prima sequenza si manifesta infatti già come duetto tra Erzählung, racconto, qui, per la precisione, racconto in una cornice narrativa, racconto nel racconto, e Schau, qui la visione dell’amata, che appare mentre procede vestita di bianco, idolo, fantasma, figura-simbolo.
Nel racconto di Francis, il giovane seduto su una panchina che interloquisce con un uomo più anziano di lui, appare poi la cittadina di Holstenwall, con la sua icona stilizzata in prospettiva antinaturalistica e, subito dopo – sempre nella rievocazione del narrante – il dottor Caligari, grosso, la chioma grigia e in disordine, una villosità che si intuisce sotto i panni scuri e antiquati, l’aspetto al limite del ripugnante: i lettori di quel capolavoro del tardo romanticismo, di quello che Sigmund Freud definì il prototipo della letteratura perturbante, L’uomo della sabbia di E.T.A. Hoffmann, non faticano a riconoscere nel Caligari interpretato dall’attore Werner Krauß tratti simili all’Avvocato Coppelius, sinistro e fatale per Nathanael, il protagonista del racconto di Hoffmann. E Francis, giovane io narrante all’inizio del film e senz’altro uno dei personaggi principali, ha tratti in comune con Nathanael.
Ciò che si rivelerà nel prosieguo mostrerà ulteriori sorprendenti aspetti in comune tra il film di Wiene e il racconto di Hoffmann, a cominciare dal tema della follia.
Quello della follia è un tema che conferisce al film anche le caratteristiche di un genere particolare di pellicola, vale a dire quelle del thriller psicologico. Ma anche sotto questo aspetto i punti di contatto con il capolavoro della letteratura inquietante, “unheimlich”, perturbante, rivestono un ruolo di primo piano, così come avviene per altri dettagli rilevanti: la prospettiva e la condizione, perfino l’affidabilità dell’io narrante, l’origine italiana di un personaggio-chiave, i motivi ricorrenti dello Schau e delle lenti da vista, la cornice narrativa per il racconto nel racconto e una struttura circolare che lascia comunque il campo aperto all’interrogazione circa realtà e sogno, razionale e irrazionale, irruzione del soprannaturale nella quotidianità, “estetica dell’irrazionale” .
Anche questi elementi – che non lasciano tuttavia inesplorate e impercorse le tecniche squisitamente cinematografiche adottate nel film, quali le dissolvenze incrociate e l’effetto iride – rendono Il gabinetto del dottor Caligari (questa l’opinione del critico ed esperto cinematografico Andreas Busche) un film compiuto dal punto di vista formale, se lo si paragona, per esempio, ai successivi Nosferatu (1922) di Murnau e Metropolis (1927) di Fritz Lang.
L’ha ribloggato su Unterwegse ha commentato:
Su Re-movies
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Grazie di cuore, Anna Maria. È un capolavoro
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difficile da comprendere, ma colpisce
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