Alla corte di Ruth – RBG, di Betsy West e Julie Cohen (USA 2018)

di Andrea Lilli

No Truth without Ruth

(titolo di una biografia di RGB)

Mentre risuonano le note dell’Ouverture del Barbiere di Siviglia, lei poggia gli avambracci sul parquet della palestra e, sollevando il corpo minuto tra i gomiti e le punte dei piedi, esercita gli addominali sotto lo sguardo attento del personal trainer. Il film inizia così. Nel fiore dei suoi 85 anni e 155 centimetri di altezza, la grande, mitica Ruth conserva intatte tre passioni di una lunga e coraggiosa vita: l’opera lirica, la palestra, e – sopra ogni cosa – la legge. O meglio: la Costituzione americana.

Ruth Bader Ginsburg è tuttora una giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, istituita nel 1789. È il più importante organo giudiziario federale, l’unico tribunale specificamente disciplinato dalla Costituzione, e della stessa carta costituzionale l’indispensabile garante. I nove componenti della Corte Suprema sono i giudici più autorevoli negli USA. Ogni legge emanata dagli Stati membri deve fare i conti con questi nove giudici, qualora la ritengano in contrasto con i principi costituzionali e successivi emendamenti.

In 230 anni di storia, la piccola, mite e tenace Ruth Bader Ginsburg è stata la seconda donna a fare parte della suprema Corte, dal 1993.

La precedente fu Sandra Day O’Connor, nominata nel 1981, pensionata dal 2006. Ma Ruth è la prima ad avere scosso davvero i propri colleghi, ridiscutendo radicalmente le loro certezze maschili. La sua attività si è rivolta alla difesa dei diritti dei soggetti sociali più deboli e sottomessi. Anzitutto le donne, ma non solo: le minoranze etniche, gli indigenti, gli emarginati. La prima causa che vince, e che la rende famosa, è paradossalmente in difesa di un uomo, costretto a licenziarsi per assistere una familiare disabile, a cui non vengono riconosciuti i benefici sociali. In seguito, combatte in aula e fuori soprattutto contro le discriminazioni di genere, per la pari dignità delle donne sul luogo di lavoro, in famiglia, nelle istituzioni, perfino nelle accademie militari. Successi clamorosi, quasi sempre.

Nata a Brooklyn da una famiglia ebraica emigrata da Odessa, Ruth Joan Bader compie i suoi studi giuridici negli anni Cinquanta presso le Università di Cornell, Harvard e Columbia – e già per questo la minuta Ruth diventa un elefante bianco: erano tempi e luoghi in cui le donne iscritte erano il 2% -; per giunta, mentre studia, sposa il compagno di studi Martin Ginsburg. Si laurea mentre genera e allatta il primo dei suoi due figli. Non dorme mai, praticamente.

Preparatissima sulle normative, sempre calma e sorridente, attenta e rispettosa con l’interlocutore, garbata e autoironica, Ruth rivela quanto la tenacia e la razionalità siano qualità necessarie – anche se non sempre sufficienti – a chi voglia perseguire alti ideali di giustizia. Amatissima e odiatissima in America, divertita al sentirsi adorata come santa o maledetta come strega, non è dato vederla sbilanciarsi, mai, nemmeno quando commenta le proprie caricature su magliette, adesivi per automobili, gadget vari, ribattezzata “Notorious RGB” (in memoria di un famoso rapper, Notorious B.I.G.).

Su questa figura ormai leggendaria, seppure ancora ben viva e vegeta (malgrado due cancri e un intervento al cuore), era già uscito a marzo di quest’anno un film, Una giusta causa (t.o.: On the Basis of Sex), diretto anch’esso da una donna, Mimi Leder. Ma il pubblico e la critica l’hanno accolto tiepidamente, forse perché la sceneggiatura segue schemi prevedibili, stereotipati, e nella traduzione in fiction il personaggio reale perde mordente, annacquato nell’ordinarietà di un’attrice lontanissima fisicamente e caratterialmente dalla giudice di ferro.

Questo docufilm, invece, preferisce mettere in scena l’originale. E lo fa benissimo. Ritmo veloce, dialoghi ridotti a quelli necessari, documentazione rigorosa e puntuale, interviste con parenti e conoscenti tutte interessanti e pertinenti alla definizione del personaggio a tutto tondo, musiche appropriate. Commoventi gli inserti in cui appare il marito, uomo tenero e amorevole, figura fondamentale per tutta la vita adulta di Ruth, dall’università in cui si conobbero fino alla morte (2010). 

Doveroso notare da quali artefici il film è stato realizzato: regia, produzione, montaggio, fotografia, produzione esecutiva, colonna sonora, post produzione: solo donne. Alla donna sicuramente più influente nella storia giudiziaria (e non solo) americana, un empatico riconoscimento interamente femminile, e non agiografico, né sdolcinato. A noi uomini non resta che applaudire. 

Un plauso va anche alla distribuzione Wanted Cinema, che da cinque anni continua caparbia a proporre in Italia titoli di alta qualità, spesso non fiction.


Nominato agli Oscar 2019 come miglior documentario.

In sala dal 15 luglio

 

2 risposte a "Alla corte di Ruth – RBG, di Betsy West e Julie Cohen (USA 2018)"

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