di Luca Graziani
Ema di Pablo Larraín ha fatto molto parlare di sé al Lido, un film che rivoluziona l’idea di famiglia, quella di maternità e che colpisce per la sua sessualità esplicita.
A ritmo di reggaeton il regista cileno dipinge per la prima volta un affresco contemporaneo dell’America Latina in un film sul presente con la gente che vive il presente. Si fa interprete delle sperimentazioni dell’ultima generazione che di fronte alla fine delle certezze sente il bisogno di trovare una nuova espressività per dar voce a sentimenti e speranze inediti.
Nuova pertanto è anche la narrativa che deve trasporre tutto ciò sulla pellicola. Quella individuata da Larraín cresce lentamente: il film in apertura può addirittura dar l’idea di avvilupparsi su se stesso, tanto i dialoghi sono affastellati e confusi. Ma quando il regista decide finalmente di lasciare maggior respiro alla narrazione, rendendola più fluida, meno sconnessa, il film prende quota e si libra in alto. Ma ecco che le interminabili scene di sesso sfrenato, accompagnate dall’incessante presenza del reggaeton, svuotano la sala dal pubblico più sensibile.
L’epilogo chiarisce ogni cosa a chi è rimasto e tutto diventa comprensibile, gli incontri apparentemente casuali, la sensualità e sessualità irresistibile di Ema che convoglia su di sé tutti coloro che le sono attorno, il bisogno viscerale ma mai troppo manifesto di maternità. E la trama intessuta da Larraín è finalmente libera di rivelarsi.
Il regista sudamericano inizialmente aveva diviso pubblico e critica ma in chiusura del Festival sembra che le opinioni stiano convergendo a favore di questo suo ultimo lavoro. Già forte di due premi collaterali, Unimed e Arca CinemaGiovani, in attesa del Leone d’oro, la possibilità che riceva altri riconoscimenti si fa sempre più concreta.
Il film inizia con un trauma per i due protagonisti, una coppia di Valparaíso. Ema la ballerina (Mariana di Girolamo) e Gaston (Gael Garcìa Bernal) il coreografo. Il loro è l’esempio di come si è evoluto ai giorni nostri il concetto di amore puro e passionale. Ma l’idillio viene incrinato da un’adozione fallimentare, fatto frequente in Cile.
Un vero shock per i due. Ema cerca di esplorare ogni nuova forma artistica ed espressiva per potersi perdonare mentre Gaston, più consapevole ma di un’altra generazione, non riesce a capire questo nuovo percorso. Lui vuole il teatro, vuole danzare al chiuso, vive la danza come una questione privata, fatta per se stesso e non per gli altri. Ema invece vuole ballare in strada, sperimentare, esplorare la vita. Le due generazioni che si scontrano in un dramma musicale sulla famiglia moderna che come quella tradizionale sembra trovare la propria ragione nella genitorialità. Il film secondo la regia non ha come obbiettivo la rivendicazione di un qualcosa, quanto la volontà di testimoniare la complessità dei rapporti e delle relazioni di oggi.
Ema parla ai giovani perché appartiene ad un mondo nuovo con una nuova estetica, un nuovo modo di comunicare, difficile ormai da ignorare cinematograficamente. Larraín individua il personaggio di Ema per raccontare questa inedita realtà, una donna sensuale, sicura di sé, esplosiva, una femme fatale dei tempi moderni. E la lascia confrontarsi con tematiche universali quali famiglia, maternità e libertà esplorate attraverso una danza fatta di ritmi atavici e primitivi, mezzo espressivo principale all’interno del film.
Il corpo serve a comunicare la propria storia e diventa come una grande orchestra di cui Ema è direttrice e faber, capace di prendere decisioni e di costruirsi un suo orizzonte di affetti alternativo a quel mondo che sa solo giudicare sempre e incessantemente.
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