‘Il condominio dei cuori infranti’ (‘Asphalte’, 2015) di Samuel Benchetrit

di Venceslav Soroczynski

Non guardate il trailer, vi farebbe pensare a un commedia intramoenia francese come ce ne sono tante. Ma non è così: qui siamo su altri livelli, anzi, su altri piani. E il cinema non è perduto, se qualcuno gira ancora simili perle.

L’impianto è quello altmaniano dei racconti e personaggi incrociati, incroci che avvengono tutti nello stesso caseggiato. Ma qui c’è una tenerezza, una sospensione, una umanità che in America oggi sono quasi invisibili.

I personaggi sono tutti fuori dal comune – più o meno come noi, se ci guardassimo attraverso una videocamera. Ognuno ha un buco in fondo all’anima e cerca di non mostrarlo, di nasconderlo ai vicini, perché si dichiarano volentieri le proprie sfortune, ma non le proprie debolezze.

La fotografia plumbea, gli interni tristi, gli esterni maltenuti dovete digerirli, ma gli sguardi, i dialoghi, gli sforzi che i personaggi fanno per capirsi, per porgersi, per amarsi, si avvicinano al sublime.

C’è il dialogo fra l’astronauta americano e la donna araba, in cui lui deve cercare un termine per spiegarsi e trova e usa la parola che sta solo nel vocabolario e nella fede di lei e così capisco che il talento di Dio sta nell’essere un attore adatto a tutti i copioni. Assisto al colloquio fra il ragazzo in prigione e la madre e, immediatamente, mi assale il timore che i nostri figli possano essere più tristi di noi, avere meno fantasia.

Ma c’è anche l’esitazione del fotografo non fotografo, la dolcezza dell’infermiera notturna, la freddezza dell’adolescente che è rimasto solo. E c’è quel rumorino metallico o animale, che non si sa bene da dove arrivi, ma che, col suo niente, tiene in pugno fino alla fine tutto il quartiere.

Quelle scene non si dimenticano. E i dialoghi mostrano il valore di un film che esce dalla superficie della sua pellicola, vola alto sopra i nostri cinematografi ostaggi di ottusi supereroi e supera le nostre anguste e incrostate ossessioni.

C’è, in Asphalte, il coraggio di un’umile e silenziosa ricerca umanistica. Una lucida imparzialità nel descrivere il mondo, l’uomo, il cubo di cemento che è un condominio della banlieue. Ci sono dolorose camminate notturne alla ricerca di un amore, campanelli che si suonano per ritrovare una madre o un figlio che non esistono, sguardi che si spengono verso il nulla sotto un cielo senza sole né speranze.C’è una timidissima e sfavillante Valeria Bruni Tedeschi e una Isabelle Huppert mistica, irraggiungibile come sempre che, verso la fine del film, declama un monologo al suo vicino di casa. Ecco, arrivati a quel punto, fermatevi e, se potete, ascoltate in lingua originale le parole che lei recita. Contate per quanti minuti vi resteranno i brividi sulla pelle e poi fatemelo sapere.

 

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