La pianista (Michael Haneke, 2001)

di Venceslav Soroczynski

 

Mi tremano le mani mentre scrivo questa nota, non si dovrebbe aggiungere nulla alla perfezione. Ma voglio spingere chi non l’ha ancora visto a prendersi il dvd. E a maneggiarlo con cura, perché questo non è un film da sabato sera.

A prima, si parla di sesso deviato, ma il centro è, più in generale, la psiche disturbata. E, forse ancora più in generale, una società esasperata che non permette errori ai protagonisti e che ha fatto danni ormai insanabili. Il tutto si porge in modo elegante, quasi asettico, eppure non meno crudo. Il sesso si vede, ma senza scene di nudo. La deviazione si inquadra in modo irreprensibile. Di ambizione esasperata si parla senza usare facili cliché.

La perversione sessuale è solo una piccola parte del materiale umano che i protagonisti offrono. Il fulcro del film – io l’ho capito solo più tardo – è l’iperbole che si tende fra pubblico e privato, fra ciò che si mostra e ciò che si desidera. E in mezzo c’è un fossato pieno di coccodrilli a bagno nel veleno. Dietro una facciata di serenità e correttezza, tutto, nella vicenda, è esasperato, consumato, esaurito: i rapporti fra insegnanti e allievi, fra madri e figlie, fra donne che temono la concorrenza in amore, fra ragazzi che devono dividersi una pista ghiacciata, fra la tenerezza dei brani di pianoforte e la crudezza dei dialoghi che si svolgono sopra i suoi tasti, fra l’impassibilità esteriore e la distruzione interiore.

La storia è costruita con rigore estetico e imparzialità descrittiva, anche se parla di una donna affetta da un disturbo che non so se esiste davvero, ma che sento esistere, perché diversamente non potrebbe mettermi in imbarazzo per il solo fatto che guardo il film. La forza della pellicola  non è tanto la descrizione puntuale della devianza della protagonista, ma il come questa coinvolge anche altri e li rende complici, li contagia nell’autodistruzione. Da una donna così controllata non ti aspetteresti una così cruenta gelosia, una così dettagliata perversione. Lei ha perfino il modo di camminare che ci si aspetta da una maestra di musica, morigerato ed essenziale, sotto gonne non attraenti e scarpe da suora.

E l’attrice protagonista qui è capace oltre ogni limite di rendere credibile il suo personaggio. Così come il regista l’intera vicenda. Viene da pensare che solo Haneke poteva girare un film del genere senza ammiccamenti o bassezze. E solo la Huppert poteva essere questa protagonista, solo lei poteva restare immobile prima di dire cose così estreme, umiliarsi in modo così completo.

C’è una storia d’amore, ma è un amore di vetri rotti; c’è una lettera misteriosa che avrei scommesso contenesse romanticherie e nostalgia, invece ripiega i neri desideri di Erika. Lei, che durante una lezione di piano, riprende il suo allievo: “Non riconosceresti l’abisso neanche se ci fossi dentro”, è lei stessa dentro l’abisso. E ne è conscia, ma questo non la indebolisce. La annulla, ma non la mortifica. E solo poche ore dopo, è lui a guardarla dall’alto, in una scena così poco credibile da essere del tutto realistica.

Poi c’è la trasformazione del protagonista maschile: è come se lei riuscisse a aprire una crepa sul fondo della sua anima, crepa dalla quale esce tutto il peggio di una umanità che, forse, aspettava solo questo. In un primo momento, è evidente una depravazione che dà quasi imbarazzo, poi la deviazione si fa strada dentro tutta la storia e sembra impossibile che questo amore riuscirà mai a liberarsene. Perché, man mano che la trama si svolge, viene il sospetto che il confine fra l’amore e la sopraffazione, il sentimento e la follia, la ragione e la deriva, sia labile come la cenere di una sottoveste andata a fuoco.

E un brandello di quella sottoveste, forse, c’è in ognuna delle nostre case. E se è così, forse non si può parlare di nostra deviazione rispetto a un modello, ma semplicemente di un modello non adatto a renderci felici.

2 risposte a "La pianista (Michael Haneke, 2001)"

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  1. Proprio così. Haneke è davvero un maestro nel rappresentare rapporti d’amore estremo, passioni straordinarie (v. ‘Amour’ con Trintignant), mantenendo una distanza dai soggetti che non è solo una forma di rispetto e pudore, ma pure un modo per condividere qualcosa di più: una sorta di empatia oggettiva. Un bavarese del resto usa evitare strette di mano, pacche sulle spalle e abbracci. Ma guarda dritto negli occhi, mentre avvicina il bicchiere dall’altra parte del tavolo.

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