di Girolamo Di Noto
La migliore definizione che è stata data per descrivere il regista giapponese Kenji Mizoguchi appartiene ad un critico francese, da pochi giorni scomparso, amico della Cineteca di Bologna e frequentatore assiduo del Festival del Cinema Ritrovato, Jean Douchet: ” Mizoguchi è per il cinema quello che J.S. Bach è per la musica, Cervantes per la letteratura, Shakespeare per il teatro, Tiziano per la pittura: il più grande “.
Il regista insieme con Kurosawa e Ozu ha maggiormente contribuito a far conoscere al mondo la cinematografia giapponese. In particolare, i più ferventi ammiratori di questo cinema sono stati soprattutto i critici dei Cahiers du cinéma destinati di lì a poco a diventare futuri registi della Nouvelle vague come Rivette, Godard, Rohmer. Gli ultimi due colgono subito la grandezza dell’ opera di Mizoguchi, collocandola persino in ambiti antitetici: Rohmer, ad esempio, parla di espressionismo e nelle sue inquadrature ci vede astrazione, sintesi “che il gesto è vero solo se è ricreato, che la verità dell’ arte non è quella della natura”.
Godard, invece, ci nota realismo poiché ” la sua arte è di astenersi da ogni sollecitazione esterna al suo oggetto”. Entrambi i giudizi possono essere accettati perché Mizoguchi non si è mai lasciato imprigionare dentro categorie assolute, è stato espressionista e realista, ha utilizzato piani sequenza ma anche folgoranti primi piani e ha raccontato, attraverso immagini di ferma e composta bellezza, soprattutto la realtà di sfruttamento ed emarginazione di cui la donna è stata oggetto in qualsiasi epoca della storia del Giappone.
Presentato al Festival di Venezia nel 1952( dove ricevette il ” premio internazionale “), La vita di O-Haru, donna galante racconta la triste storia- attraverso un lungo flashback- di una cortigiana giapponese caduta in disgrazia a causa della sua relazione con un servo nel Giappone del XVII secolo e considerata per questo motivo alla stregua di una prostituta. Diventerà concubina di un feudatario e da lui sarà costretta a dare un discendente poiché la moglie è sterile, lavorerà per tanti uomini, otterrà la loro fiducia, ma il passato ingombrante le negherà la permanenza in ogni luogo, costringendola a vagare di sventura in sventura. Finirà per avviarsi al triste e umile mestiere di prostituta, a mendicare per strada cercando, nonostante l’implacabile susseguirsi di ingiustizie, di non rassegnarsi al suo destino e di non perdere nulla dei sentimenti umani e puri che la contraddistinguono. O-Haru, nel rievocare- ormai anziana – la sua vita infelice, vive l’umiliazione di essere donna in un mondo governato da uomini.
I suoi sentimenti vengono bloccati sul nascere, trovano l’opposizione di uomini spietati,ingrati e, sebbene sia una donna sempre pronta a rialzarsi, deve pur sempre fare i conti con una società patriarcale, basata sulla soggezione della donna che non può che essere umiliata, disprezzata, offesa. O-Haru è prima di tutto imprigionata nella forma: l’unica ricchezza che possiede è il proprio aspetto e dal momento che la donna è considerata oggetto di desiderio e oggetto di scambio, la forma, la bellezza costituiranno anche la sua condanna.
Come ha giustamente osservato il critico Dario Tomasi la “forma non è solo quella del corpo perfetto, ma anche quella del sistema di regole che governa la società”. O-Haru ha infranto queste regole e cedendo all’ amore(vero) per un uomo di estrazione inferiore non può far altro che imboccare la strada della perdizione. La vita di questa donna ‘galante’ è il ritratto di un’eroina portata alla rovina da regole ingiuste e spietate: lei e il servo Katsunosu (lo straordinario Toshiro Mifune) si amano reciprocamente, ma questo non basta. Sono “colpevoli” di appartenere a caste diverse. Sotto le varie figure del padre, del signore, del cliente occasionale, il mondo degli uomini si mostra ipocrita, oppressivo, cinico. Si pensi al padre assillante nel rimproverarle la condizione perduta che prima la sfrutta per il suo prestigio sociale, ma poi oppresso dai debiti, la fa prostituire.
O quando O-Haru viene scelta in un vero e proprio mercato delle donne( oggi diremmo casting) tra le ragazze più belle di Kyoto per portare in grembo il futuro erede del feudatario e poi una volta compiuto il ” lavoro” viene congedata e costretta per tutta la vita ad essere separata dal figlio; o quando viene evitata in pubblico dagli uomini che poi la frequentano privatamente. Il racconto sconsolato di O-Haru, oltre a denunciare le ingiustizie umane, l’avidità e la deferenza dell’ uomo davanti al denaro e alla donna mercificata, è anche una malinconica riflessione sul tempo che passa: si pensi, in tal senso, all’incedere di O-Haru, ormai anziana , che procede velata, quasi avesse pudore del tempo trascorso o al dialogo con una monaca in un convento buddista che le ricorda che ” anche ciò che è bello al mattino si tramuterà in ossa alla sera”.
Raffinatezza formale e impegno e dedizione nel delineare la condizione della donna delusa nel suo bisogno d’amore sono i due elementi essenziali che costituiranno il segno distintivo del cinema di Mizoguchi. Un cinema poetico, lento nella narrazione, caratterizzato da squarci lirici suggestivi, campi lunghi che amplificano le emozioni, e insieme profondamente umano, capace di dare voce agli ultimi, dal percorso travagliato, dal destino avverso, ma ancora portatori di una dignità intatta che per fortuna resiste e stenta a morire.
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