- Di Andrea Lilli
Questa non è una recensione: è una dichiarazione d’amore (corrisposto).
Ti amo Hollywood Party, ti sono grato per le risate che faccio ogni volta che ti vedo. Non so perché. Ti conosco a memoria, dunque non dovresti più sorprendermi. E invece rido ancora. Sarò scemo io. Sarà una reazione chimica automatica, s’innesca inevitabilmente quando ci incontriamo. Saranno i tuoi colori pastello che mi ricordano i fumetti anni Settanta.
O le musiche di Henry Mancini, quello della Pantera Rosa, sempre di Blake Edwards e sempre con Peter Sellers. Sarà la prima scena, quella in cui l’attore indiano Hrundi V. Bakshi/Peter Sellers candidamente distrugge la costosissima scenografia di un film, prima di sabotare l’opulenta festa in cui il destino ha voluto imbucarlo.
Sarà l’abbondanza e il rumore d’acqua nella villa hollywoodiana devastata, come l’acqua che correva nella fontana di Piazza dei Quiriti e dalla fontanella di Via Pompeo Magno, buffa toponomastica intorno al Cineclub Tevere-Labirinto, il rifugio romano dove ti vidi la prima volta.
Sarà la tintura di Peter Sellers, la stessa spalmata sugli “indiani” dei film di Sergio Leone. O il suo improbabile sitar, come quello di Ravi Shankar, o la tuta rossa, già: un Rosso 68.
Sarà la motocarrozzetta blu, la Morgan a tre ruote, una specie di Ape californiana che si porterà via Michèle (Claudine Longet), francesina dolce e tenera scippata al grasso produttore, e affoghi pure il resto del mondo nell’alcol e nella schiuma, e noi due via dalla pazza folla, via dall’elefante dipinto in lavatoio, via dal cameriere (un ispirato Steve Franken) nipote di Buster Keaton e dalla biondona che si abbracciano ubriachi persi, via dalla governante nazista e dal suo soldatino viziato, via dalle pesanti parrucche e collane, via dalla Logica del Dollaro, via dai ballerini russi che ballano mentre la jazz band suona subacquea. Un film tanto simile ai miei sogni di allora.
Far ridere e sorridere è più difficile che rattristare, commuovere, angosciare o, peggio, annoiare. Se all’uscita dei cinema fossero installate telecamere con rilevatori automatici per registrare la frequenza di visi distesi e di fronti corrugate, calcoleremmo le differenti quantità di film comici e film ‘seri’. I primi sono pochissimi. I secondi sono tanti, troppi.
I Film Comici (non quelli sguaiati, dalle battute facili e pesanti, che in fondo sono deprimenti) compongono una piccola frazione nelle cineteche, sono una minoranza da salvaguardare magari con una legge speciale, una specie da proteggere come Patrimonio dell’Umanità.
Le storie comiche davvero irresistibili poi, quelle che fanno ridere fino alle lacrime, sono sempre state merce rara. E una satira divertente, fine e feroce che castighi ridendo, è ancora meno frequente della pura comicità. Specialmente dalle tue parti, negli Stati Uniti d’America. Pertanto, rarissimi sono i film satirici americani che facciano ridere e riflettere qualunque tipo di pubblico, l’analfabeta e l’erudito, il benpensante e l’anarchico. Ecco perché tu sei una cosa unica.
Sia come sia, questi sono giorni di festa, e il film di festa più allegro e divertente che ho visto sei tu, e anche se in fondo sei un’americanata futile effimera pure tu come i tuoi bersagli, non ti scordo mai. Perché sei un capolavoro spontaneo, quasi improvvisato che con poche decine di pagine di sceneggiatura e tanta leggera eleganza sputtanò il mondo di Hollywood. Non ti riconobbero ovviamente nessun premio prestigioso: ottenesti solo e solamente uno strepitoso successo di pubblico, un’incredibile accoglienza in tutto il mondo, che continua tuttora, dopo più di mezzo secolo. Ma non sono geloso, mi fa piacere condividerti.