di Girolamo Di Noto
Ahmed è un bambino che vive in uno sperduto villaggio dell’Iran. Tornato a casa da scuola, si accorge di avere con sé il quaderno del suo compagno, che rischia di essere punito il giorno seguente dal maestro, se non avrà eseguito i compiti. Decide così di mettersi in cammino per restituirglielo, ma non sa dove abita e la ricerca non si presenta così semplice per un ragazzino.
Presentato al Festival di Locarno nel 1989, Dov’è la casa del mio amico? è il film che ha portato maggiore fortuna a Kiarostami, è l’opera attraverso cui i cinefili occidentali hanno scoperto questo straordinario regista. Nato a Teheran nel 1940 e scomparso a Parigi nel 2016, Kiarostami non è stato soltanto un autore immenso, ma anche un artista totale. Come le grandi figure di artisti rinascimentali è stato capace di esprimersi attraverso mezzi e linguaggi diversi: pittura, fotografia, poesia, teatro lo hanno accompagnato per tutta la vita. Un apprendistato lungo e colto che lo ha portato ad affermarsi come uno dei maggiori cineasti contemporanei. La qualità nella composizione dell’inquadratura, la presenza costante dei bambini, la delicatezza nel saper raccontare storie semplici ma intrise di significati profondi hanno sempre caratterizzato l’opera di questo regista, assai rigoroso nel mostrarci storie di miseria, sensibile nel riuscire a cogliere l’essenziale nell’immobilità di un albero, nella tortuosità di una strada, nell’emozione sul viso di un personaggio.
Dov’è la casa del mio amico? fu un’autentica rivelazione. All’ uscita del film giornalisti e critici parlarono di ‘evento felice’ nella storia del cinema iraniano, eppure all’inizio alcuni distributori non volevano rischiarne il lancio. ” Ma quanto deve valere il quaderno di questo bambino per spingere gli spettatori ad andare al cinema?” Kiarostami credette nel suo progetto ed ebbe ragione. Dietro un’esile trama, si sviluppa un bellissimo film che è prima di tutto una parabola sul bisogno di comunicare e di rapporto con gli altri e che poi diventa, attraverso il delicato viaggio costellato di luoghi e incontri, una riflessione sul concetto di responsabilità da parte del bambino, una triste constatazione sull’incapacità degli adulti di ascoltare i giovani, una critica all’educazione autoritaria a cui essi sono sottoposti. Nella lingua persiana la parola Jou vuol dire ” una persona alla ricerca di” e Ahmed rispecchia perfettamente questo concetto.
Con un maglioncino rosso, occhioni seri e sgranati e un quaderno sotto il braccio, il bambino è alla ricerca disperata del suo amico, si sente in colpa per aver preso inavvertitamente il suo quaderno e, nonostante non conosca il suo indirizzo, con ostinazione e caparbietà, va alla sua ricerca, assumendosi un senso di responsabilità non indifferente. Di fronte al suo peregrinare, Ahmed deve avere a che fare con adulti ostili e indifferenti, incapaci di ascoltarlo. Prima ancora di affrontare il viaggio, Ahmed deve superare le barriere della sua famiglia che non lo lasciano andare. Lo assillano con mille commissioni casalinghe che i bambini ‘devono’ fare, non portano ascolto alle giuste richieste del bambino: il padre è quasi del tutto assente, ma si avverte la sua presenza minacciosa; sono la madre e il nonno che fanno regnare la Legge della famiglia, fatta di obblighi e divieti e rispetto della tradizione e per nulla flessibile alle esigenze del piccolo.
Emblematica è la richiesta del nonno di Ahmed di andargli a comprare le sigarette che già possiede, in virtù della necessità da parte dell’anziano di insegnare l’importanza della disciplina al nipote. La Legge della famiglia che si scontra con la libertà dell’individuo, la meccanicità di certi comportamenti, l’assurdità di una Legge che disorienta in contrapposizione con la voglia di trasgredirla presenti nel film richiamano alcune mirabili pagine delle opere di Kafka, in particolare Il castello e un racconto intitolato La passeggiata improvvisa, in cui il personaggio kafkiano, dopo che è riuscito finalmente a trovarsi fuori dallo spazio claustrofobico delle abitudini familiari, riflette su quella inaspettata libertà, ancora di più rafforzata ” se a quella ora tarda si cerca un amico per vedere come sta”. Così nel film di Kiarostami, Ahmed, dopo varie peripezie, si libera dai vincoli di una famiglia regolata da Leggi eterne. Se per Kafka, però, cercare un amico corrisponde ad uscire fuori dalla soffocante trama familiare, per il piccolo il gesto è più concreto, è legato ad una missione, ad un senso di responsabilità che travalica qualsiasi dovere familiare. Quando Ahmed si avvia finalmente alla ricerca dell’ amico, come in Kafka, deve affrontare figure ostili, ambigue, misteriose. Il piccolo si avventura in un territorio straniero, senza guida, procede su un cammino dall’ esito incerto, percorre una strada a zig zag che non sa dove possa portare, supera la cima di una collina, riceve indicazioni sbagliate, si smarrisce tra i vicoli. Come in Kafka i luoghi rimandano ad altri luoghi e i nomi servono a poco. Lui abita a Koker e dall’ altra parte della collina c’è Poshteh.
“Sì, qui è Poshteh, ma Poshteh ha sei frazioni “. Quando dice il nome di chi sta cercando, la risposta è: ” Ma qui tutti si chiamano così “. Sembra che tutti si diano da fare per disorientarlo. I personaggi che incontra sono troppo impegnati per dargli retta o sono alla ricerca di un passato cui si aggrappano malinconicamente. L’unico adulto positivo che trova nel suo cammino è un fabbro che decide di andare in suo soccorso indicandogli la strada, insegnandogli l’importanza dell’aiuto reciproco, ma quando si troverà davanti alla casa, qualcosa lo farà desistere e tornare indietro. La ricerca non sarà fallita perché Ahmed riuscirà in qualche modo a dare il quaderno all’ amico e – cosa più importante- il suo viaggio lo farà diventare più forte e responsabile. Il viaggio di Ahmed, come tutti gli itinerari dei personaggi dei film di Kiarostami, avrà connotati realistici e mistici e l’aspetto simbolico è la citazione nei titoli di testa del poeta iraniano Sohrab Sepehri che scrive: ” Tu andrai in fondo a questo viale/ che emergerà oltre l’adolescenza/ poi ti volterai verso il fiore della solitudine. / A due passi dal fiore, ti fermerai/ ai piedi della fontana da dove sgorgano i moti della terra…/ Tu vedrai un bambino arrampicato in cima a un pino sottile/ desideroso di rapire la covata del nido della luce/ e gli domanderai: dov’è la dimora dell’Amico?”
L’Amico è molto di più che l’amico concreto, allude ad una ricerca più alta e profonda. Al di là di qualsivoglia significato, il film di Kiarostami resta indimenticabile nel descrivere con uno sguardo innocente e sincero l’Iran dei villaggi, magnifico nel regalare immagini di mistero come il continuo soffiare del vento, i ripetuti latrati dei cani e sublime nel donarci perle di poesia come la presenza di un fiore tra le pagine del quaderno dell’amico, nell’ultima, splendida immagine del film.
Rispondi