di Greta Boschetto
“Il disordine” è un film del 1962 di Franco Brusati con Renato Salvatori, Alida Valli, Jean Sorel, Tomas Milian, Susan Strasberg, Sami Frey e Georges Wilson.
Il film parte con un inizio con dei falsi protagonisti: una famiglia aristocratica, pronta a dare una sontuosa festa in un’antica villa brianzola mentre il suo patriarca è in agonia, fa da apertura alle vicende di Mario, un giovane alla ricerca di un lavoro per aiutare se stesso e la madre malata.
Mario si muove in una società del benessere piena di malessere sperando di fare il salto di qualità e di affermarsi socialmente ed economicamente, frequentando le “persone che contano” in una caotica Milano notturna, quasi metafisica, che si muove frenetica ma fredda e algida sulle note jazz di Nascimbene e cerca di farsi strada, ingenuo e insoddisfatto, tra la decomposizione morale dei vari personaggi che incontra, mai troppo maligni ma semplicemente persi, a volte poco ma a volte molto simili a tutti noi in ogni loro sfaccettatura immorale.
In realtà nemmeno Mario è il vero protagonista di questa storia, ma quasi un pretesto di analisi.
I personaggi principali del film, della vita stessa, non sono i fatti, ma i sentimenti: l’ambiguità, l’incertezza, la disgregazione che confonde il confine (mai netto) tra il bene e il male.
La vecchia società è in agonia, sta morendo come il patriarca della famiglia aristocratica all’inizio del film, il sontuoso banchetto quasi surreale prima della festa sembra un preambolo a un funerale, le antiche credenze e gli antichi pilastri della società stanno cambiando e non sono di certo da rimpiangere, arroganti e incapaci di mostrarsi per quello che erano veramente, ma il cambiamento lascia sempre spiazzati soprattutto inizialmente, ci rende spaventati e incapaci di rimpiazzare le nostre antiche religioni.
Abbandonati di fronte ai mutamenti, ognuno prova confusamente ad adattarsi alla propria vita, chi cercando di sbarcare il lunario, chi dimenticando il passato, chi non accettando la fine di un amore, chi rompendo il tabù sulla propria omosessualità.
Anche il finto prete ci prova, un altro ambiguo personaggio di questa amara pellicola, un uomo che non nega pietà a nessuno, che cerca di aiutare Mario forse più per salvare la sua stessa anima, dannata per non essere riuscito a salvare davvero le persone che ha accolto nella sua specie di comune e che accettandole così come sono si accorge di non aver aiutato davvero.
Tutti tentativi a fin di bene, ma la domanda fondamentale verrà fatta da una delle anziane signore che vivono nell’ospizio da cui sta per uscire la madre di Mario, grazie all’aiuto di Don Giovanni: “Perché lei sì e noi no?”
Non c’è quasi mai spazio per la solidarietà in mezzo all’ingiustizia e alla sofferenza, di qualsiasi tipo essa sia.
Franco Brusati, con taglienti pennellate in bianco e nero e con una regia realista negli intenti ma surreale nei modi, ritrae un affresco di vari personaggi appartenenti alla Milano degli anni del boom economico, senza volerli giudicare severamente ma rappresentandoli per quello che sono, che siamo: egoisti e soli, preoccupati soltanto di noi stessi, disordinati.
Nemmeno il (quasi) lieto fine riesce a toglierci totalmente tutto l’amaro in bocca che ci siamo ormai abituati a degustare: per ottenere qualcosa, qualcosa si distrugge.
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