Oltre il giardino (Being There), di Hal Ashby [USA 1979]

  • di Andrea Lilli

Il giardiniere Chance, nella migliore interpretazione della carriera di Peter Sellers, è un uomo di mezza età costretto ad uscire di casa per la prima volta nella sua vita. Costretti a restare in casa per la prima volta nella nostra vita, lo ri/vediamo oggi e ci stupisce ancora, dopo quarant’anni.

Questo film non invecchia mai, perché ridere e far ridere con intelligenza allunga la vita, e per il suo gioco di specchi, che incontrandosi confermano e raddoppiano le apparenze, le moltiplicano e generano equivoci all’infinito, sfondando gli spazi e annullando il tempo, arrivando ad illuminarci fin nell’epoca di Trump. Specchi come quello in cui regolarmente si pettina il candido e metodico giardiniere. Specchi come i televisori, unico contatto con l’esterno per un recluso innocente che non sa leggere né scrivere, allevato da una tata e da un telecomando, eterno bambino ignaro del mondo.

Il mondo è quello di Washington DC, dove all’orizzonte, oltre le ville dei ricchissimi e gli slums dei poverissimi, si staglia la dimora del Presidente più potente del pianeta.

Quando muore il vecchio padrone del suo microcosmo casa-giardino, Chance inizia una paradossale ed esilarante odissea. Oltrepassa le colonne d’Ercole e scende nell’Oceano della metropoli accompagnato non a caso dalla versione funky di Eumir Deodato di Also sprach Zarathustra. Ma se l’eroe intergalattico di Kubrick indossava l’adeguata tuta spaziale, il semplice giardiniere attraversa la città con un anacronistico abbigliamento anni ’30 completo di guanti, bombetta ed ombrello. E se l’astuto Odisseo sopravviveva solo grazie all’attenta eloquenza e ai tappi di cera, l’antieroico Chance si salva per i silenzi imbarazzati e le frasi ingenue, interpretate come perle di saggezza. In miracoloso equilibrio tra le belve di quella giungla, arriva proprio lì, punto interrogativo imprevedibile, inaudito: nelle sedi del potere centrale. Troppo complesso per capire la semplicità, il Potere lo trasforma in punto esclamativo.

Unica sua arma e scudo: il telecomando. Con quello vorrebbe evitare ogni situazione scomoda e incomprensibile. Invece sono gli altri a precederlo: specchiandosi nei suoi occhi buoni e vacui, interpretano le sue ‘stranezze’ secondo i propri sospetti o desideri. Non riescono a decodificare Chance, anche perché il suo passato è un buco nero da cui non emerge alcun documento, parente, amico, nessuna traccia di vizi o virtù.

Così diventa il preferito di Eve (Shirley MacLaine), la prima vittima volontaria delle proprie proiezioni, che prima investe Chance e poi – ribattezzandolo Chauncey Gardiner – lo introduce nel paradiso degli orchi, dove lui non affonda, anzi serafico porta aria fresca e pulita.

og shirley e chance

Il secondo a beneficiare delle virtù filosofiche e morali di Chance è il moribondo marito di Eve, il potente finanziere Ben (Melvyn Douglas – per questo ruolo, Oscar come attore non protagonista), amico e sostenitore politico di Bobby, il Presidente USA (Jack Warden). Ben è conquistato dalla schiettezza assoluta di Chance, ne fa il consigliere suo e, per contagio, del Presidente. Con l’aiuto della fortuna il fragile Chance, da piccolo e banale problema sociale diventa una grande soluzione, provvidenziale sia per l’egregia coppia di coniugi che per l’intera comunità americana. Anzi: la soluzione più popolare. Sempre grazie alla TV, che lo accoglie come un profeta. Tanto più carismatico e gradito in quanto non legge i giornali, non sa scrivere nemmeno la propria firma, non è mai stato in automobile né in ascensore, non sa baciare, ama solo la televisione, appunto.

Chance, in mano a chi è abituato a manipolare gli altrui destini secondo quel che gli conviene, da soggetto borderline diviene modello perfetto. Eve lo trova molto profondo e se ne innamora perdutamente. Per Robert, il medico di famiglia (l’unico ad accorgersi della verità, ma troppo tardi) è dotato di un ottimo senso dell’umorismo. Per Ben, è un uomo d’affari sincero, molto equilibrato e affidabile, anche come erede del letto coniugale. Per Bobby il Presidente, è un saggio procacciatore di consensi. Per l’ambasciatore russo, è senza dubbio un sagace seguace dello scrittore Krylov.

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Per l’ex tata afroamericana, è la conferma di come negli USA basti essere bianchi per avere quel che si vuole. Per avvocati e servizi segreti è un mistero, ma talmente abile e potente da essere riuscito a far distruggere ogni traccia del suo certamente losco passato. Per alcune donne colpite dal suo successo, è molto sexy. Per i giornalisti, è un uomo di fegato: l’unico ad avere il coraggio di dire pubblicamente che i giornali non li legge mai. Per la TV è un fenomeno, un record di audience e share. Per il futuro, potrebbe essere un salvatore capace di camminare sull’acqua – magari con le Gnossiennes 4 e 5 di Erik Satie in sottofondo.

Tutto questo rimbalza sul viso sempre bonario di Chance, che come uno specchio resta imperturbabile, indifferente (o quasi: un fremito lo prova infine, con Eve) ai capricci degli estranei e delle folle. Quel che serve a lui, gli è chiaro: un bicchiere d’acqua, la colazione, un giardino. E lo dice: quando ha sete, quando ha fame, quando vuole fare quel che sa di poter fare. Il suo pensiero coincide con il suo essere, lì e in quel momento.

Arriva il previsto rituale delle esequie di Ben. Nell’orazione funebre, l’amico Bobby legge alcune sue citazioni. Anziché dallo scrittore-sceneggiatore Jerzy Kosinski (autore del romanzo Presenze da cui è tratto il film) sembrano scritte dalla mano di Hal Ashby, radicate nella filosofia del suo altro capolavoro, altrettanto indimenticabile, Harold e Maude (1971): “Malgrado le nostre apparenze esteriori, siamo tutti dei bambini”; “La vita è uno stato mentale”.

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