Departures, di Yojiro Takita (2008)

Di Antonio Sofia

Com’era il mondo nel 2008?
Sono passati dodici anni, non dovrebbe servire la macchina del tempo per ricordare quel recente passato. Era un anno bisestile, certamente, e per i cinesi è stato l’anno del topo, l’ultimo prima del 2020. Il primo agosto si scopre l’acqua su Marte. Crollano le borse mondiali dopo il fallimento della Lehman Brothers a settembre; il 4 Novembre Obama è eletto Presidente degli Stati Uniti. Facebook integra la chat nella sua piattaforma, è l’anno in cui esplodono definitivamente i Social Media. LOST tiene banco nelle discussioni al bar, l’ennesima canzone inutile vince Sanremo (Giò Di Tonno & Lola Ponce con Colpo di fulmine, non provate a ricordarla), mentre la mia Roma perde l’ennesimo Scudetto per un soffio.
Io non ero ancora diventato babbo, accadrà tre anni dopo.
Ora che ci siamo un po’ rinfrescati la memoria, dobbiamo inserire in questo contesto un film “fantasma”: nel 2008 Departures di Yojiro Takita arriva nelle sale in Giappone e vince l’Oscar per il miglior film straniero l’anno successivo, ma in Italia non sarà distribuito fino al 2010.

Nella ricchissima storia del cinema nipponico Takita non è un maestro dei più noti: ha avuto in patria un discreto successo nel soft-porno con la serie Molester’s Train e si è affacciato a Cannes nel 2006 con una commedia, No more Comic Magazines!, ricevendo un buon riscontro di critica, ma niente che lasci presagire l’exploit di Okuribito, titolo originale di Departures.
Okuribito è “colui che accompagna alla partenza” e sulle “partenze” si concentra il titolo del film nel mercato internazionale, ma il viaggio a cui si allude è quello che principia nel congedarsi dalla vita. Su questa semplice metafora della morte, presente in tutte le religioni e le culture, si incardina la svolta narrativa del film.
Il protagonista, Daigo Kobayashi, è un violoncellista rimasto senza orchestra. Vende il suo prezioso strumento e si rifugia con la moglie nel paese dove è cresciuto: alle porte di Yamagata, può contare sulla casa lasciatagli dalla madre, un vecchio locale in disuso.
Alleggerito dalla pressione per l’insoddisfacente carriera nella musica, Daigo risponde a un annuncio di lavoro poco chiaro: si aspetta di fare la guida turistica e si ritrova alle prese con la pratica tanatoestetica, la preparazione dei corpi al rito funebre.

Il suo capo, Isuei Sazaki, interpretato da un colossale Tsutomu Yamazaki, lo coinvolge prima nella realizzazione di un DVD espositivo delle tecniche in una parentesi grottesca, poi gli insegna sul campo le accortezze di un mestiere desueto e complicato, in cui la cura per il defunto e i suoi cari, presenti al rituale, si accorda a una meticolosa perizia nei gesti. Sazaki è un vedovo solitario che si circonda di piante per equilibrare il peso del continuo rapporto con la caducità dell’essere al mondo. Inoltre, completa il personale dell’agenzia una donna che, come il padre di Daigo, ha abbandonato la famiglia e suo figlio per un amore clandestino.

La preparazione della salma richiama l’esecuzione di uno spartito e la prossimità al mistero della morte è un innesco potente, catalizza l’attenzione e lo spirito del tanatoesteta, liberandolo dalle precarietà dell’effimero, dalle incertezze non consentite. Daigo ritrova il piacere della musica stessa in una sequenza meravigliosa, in cui si dedica al violoncello d’infanzia sospeso nel paesaggio, in bilico tra la nuova dedizione e gli affanni quotidiani: la moglie ha rinunciato alla carriera e si è calata di buon grado nella provincia, ma non approva l’impiego e lo lascia. Anche un vecchio amico ritrovato, figlio della padrona del bagno pubblico locale, reagisce con repulsione alla sua scelta. La morte sembra corrompere l’integrità dell’uomo produttivo, performativo e oggettivamente funzionale in ogni attività a cui si dedica.
Il film segue con sensibilità l’evoluzione emotiva del protagonista, su cui pesa la memoria del padre: non ricorda il viso dell’uomo, ma è consapevole che la musica è una passione che lo collega a quel nodo affettivo irrisolto. Non sono tralasciati i personaggi di contorno, tutti affrontati con pochi ma efficaci tratti. La moglie stessa, piuttosto esile nella sua prodigalità gentile, assume una centralità quando torna a Yamagata, introducendo lo sviluppo determinante della pellicola: è incinta e Daigo non può esimersi dallo sciogliere le riserve sul loro futuro.

Per quanto prevedibile, lo sviluppo della sceneggiatura è commovente: la padrona del bagno pubblico muore e Daigo deve occuparsi della sua preparazione davanti all’amico e alla moglie. Lo fa con la consueta delicatezza: recupera un foulard giallo di cui la donna era molto fiera e con quello completa il suo lavoro, in una rivelazione a quel punto indiscutibile del valore che esso realizza, un servizio offerto con uguale carità a qualsiasi uomo o donna, preservando nel corpo il ricordo pieno della vita stessa.
Nel terzo tempo, il film chiude il suo cerchio intorno alla paternità: Daigo deve occuparsi di suo padre, morto senza affetti in un villaggio di pescatori.

Com’è evidente in questa ricostruzione, Departures è un film ricchissimo di simboli e di storie. Il procedere del tempo nelle stagioni, cambia in modo percepibile e racconta una sua storia: come per gli uccelli che migrano, come per i salmoni che risalgono il fiume ostinati a resistere alla corrente per tornare dove sono nati prima di morire.
Gli esseri umani che la sceneggiatura connette vivono tutti a loro modo una profonda solitudine: il rito funebre è il momento in cui chi “parte” ottiene finalmente lo sguardo di coloro che restano e li costringe a trattenere il tempo nella riflessione.
Un sasso può esser donato per rendere visibile il peso e la forma della propria anima, questo è l’insegnamento che il padre di Daigo ha lasciato al figlio. La musica, se eseguita con intenzionalità espressiva autentica, può ottenere lo stesso effetto. Ma per vedere ciò che è nei simboli naturali, per sentire la musica, occorre fermarsi, affrontare con coraggio l’esistenza, accettarne i misteri, confidare nell’uguaglianza che quei misteri sentenziano irrevocabilmente per tutti gli esseri umani.

In questo doloroso periodo la pandemia ha unito l’umanità nel cordoglio a ogni latitudine come mai prima nella Storia. Dal 2008 ci parla, dunque, Departures: di come siamo tutti  soli dinanzi alla morte, ma anche di come la morte possa ravvivare il senso di tutto ciò che abbiamo in comune e rafforzare l’ideale della cura, di una vita che sia piena di vita.
La colonna sonora amalgama magicamente la narrazione. Ne è autore Joe Hisaishi, già compositore per i capolavori di Kitano e dello Studio Ghibli. Il suo suono ha la virtù di universalizzare l’emozione, traendo all’interno della melodia e degli arrangiamenti orchestrali ogni elemento che compone la scena: umano e naturale, organico e inorganico si fondono insieme e riecheggiano di un senso altrimenti ineffabile per i limiti della rappresentazione e della parola.

>>>>Disponibile su Fareastream, la piattaforma offerta dal Far East festival di Udine.<<<<

2 risposte a "Departures, di Yojiro Takita (2008)"

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