di Bruno Ciccaglione

Uscito nel 1987, sette anni dopo Shining e dodici anni prima di Eyes wide shut, Full metal Jacket è in realtà l’ultimo film compiutamente kubrickiano, perché è l’ultimo in cui il suo autore ha controllato – maniacalmente come sempre – ogni fase della realizzazione fino alla uscita in sala. Apparentemente l’ennesimo film americano sulla guerra del Vietnam, Full metal Jacket conferma invece l’abilità di Kubrick di entrare in un genere cinematografico, rivoluzionarne e ridefinirne i codici radicalmente, ridimensionando di colpo molti dei film che con quel genere si erano cimentati.

Anche se alcuni dei film precedenti di Kubrick occupano forse un ruolo più importante nella storia del cinema, Full metal Jacket contiene molti degli elementi caratteristici della sua estetica. La narrazione, come palesemente era già avvenuto in Barry Lyndon e Arancia meccanica e più sottilmente in quasi ogni suo film, è divisa in due parti speculari e perfettamente simmetriche: nella prima si costruisce il meccanismo filmico che si espliciterà nella seconda. In Barry Lyndon avevamo assistito prima all’ascesa e poi alla caduta di Barry; in Arancia meccanica alle violenze compiute da Alex nella prima parte segue il contrappasso subito nella seconda.

In Full Metal Jacket la prima parte è dedicata alla costruzione in serie di killer implacabili (il durissimo addestramento dei marines, che deve trasformare degli uomini, costi quel che costi, in delle macchine per uccidere), mentre nella seconda li vedremo all’opera in uno scontro in cui il Vietnam è senza giungla, il nemico è per lo più invisibile, in un paesaggio di rovine urbane che potrebbe essere di qualsiasi guerra. Anche la guerra, tema ricorrente nel cinema di Kubrick, lo interessa soprattutto perché è il momento in cui è più evidente che la fiducia assoluta nella razionalità scientifica illuminista si dimostra catastroficamente illusoria. L’addestramento della prima parte del film è questo: l’illusione di trasformare una truppa in un macchinario impermeabile alle emozioni e che risponda in maniera automatica agli stimoli e agli ordini. La cosa può funzionare, ma a caro prezzo.

Per Kubrick l’uccidere è forse il fatto più tipicamente umano: se la scimmia di 2001: Odissea nello spazio diventava uomo solo con l’omicidio, qui il protagonista Joker – un eccezionale Mattew Modine – ha sull’elmetto la scritta “Born to kill”, nato per uccidere, anche se ad essa accompagna sul petto il simbolo della pace (al solito Kubrick mette in evidenza l’ambiguità dell’essere umano, insieme “buono e cattivo”). A testimoniare tutto il pessimismo dell’autore, il personaggio di Joker non è un fanatico militarista, anzi è piuttosto un intellettuale, tanto che farà il corrispondente per Star and stripes (la rivista dell’esercito). Eppure perfino lui è diventato un killer, che alla fine del film dichiara orgogliosamente di non aver più paura.

L’idea della manipolazione della mente per asservirla completamente a scopi “più alti” (far “diventare buoni” in Arancia meccanica, fabbricare dei killer nell’addestramento dei marines prima di mandarli in guerra) è centrale anche qui. Ma se Alex alla fine riusciva a liberarsi degli effetti della manipolazione, i personaggi sottoposti all’addestramento tra i marines non si potranno liberare così facilmente da quel tipo di condizionamento. Alcuni cominceranno a morire e a uccidere già a casa propria, come è il caso di “Palla di lardo” (uno straordinario Vincent D’Onofrio): l’imbranato commilitone di Joker e i suoi, preso di mira dai superiori e infine bullizzato senza pietà dai compagni, sarà alla fine il primo, tragicamente, a compiere il percorso di metamorfosi cui l’addestramento tende e a diventare un killer (anche se fuori controllo).

La battaglia urbana sotto il fuoco di un cecchino, invisibile e implacabile fino al finale, si chiuderà con la sua uccisione. Si trattava di una giovane donna – una piccola sorpresa per lo spettatore, mentre i soldati impegnati nello scontro non fanno neppure caso al dettaglio. La ragazza giace agonizzante ai piedi dei marines che l’hanno ferita e che discutono: è più giusto finirla con un colpo di grazia o lasciarla ancora soffrire per dei lunghi e dolorosi minuti?

Anche dal punto di vista della messa in scena troviamo tutti gli elementi tipici del cinema di Kubrick: il ritmo del montaggio con un rapporto con la musica sempre travolgente (la colonna sonora qui è praticamente solo composta da brani rock e pop d’epoca); i carrelli all’indietro (si pensi alle marce nei dormitori della caserma, come quella in cui gli uomini impugnano il proprio fucile e il proprio fallo); un uso frequentissimo della camera a mano (in genere maneggiata dallo stesso Kubrick), soprattutto nelle scene della battaglia urbana; lo zoom in avanti e indietro; gli obiettivi grandangolari ecc a favorire un distacco e una dimensione non realistica, alternati a momenti di un realismo quasi pulp. In generale l’atteggiamento è sarcastico e divertito, di fronte alle piccole miserie di quelle formichine che sono gli uomini, pur con picchi drammatici e momenti di grande tensione.

Anche il finale di Full metal jacket è in qualche modo tipico di Kubrick: beffardo e cinico. Come in Il Dottor Stranamore, che si chiudeva con la sequenza di esplosioni nucleari che distruggono il mondo e la canzone “We’ll meet again, don’t know why, don’t know when” (c’incontreremo ancora, non so dove, non so quando), anche qui è il gusto dello sberleffo a guidare Kubrick. Come a voler dire che quel cui abbiamo assistito non è una tragedia di particolare rilevanza, che i drammi umani raccontati sono gli stessi di sempre e che sempre si ripeteranno, Kubrick decide di far cantare a questi marines, che ritornano alla base di notte dopo la battaglia, la canzone di Topolino: “Solo tu Topolin/puoi capir/ Topolin/i mille mille sogni di un bambin”. Infine, a chiosare, il film si chiude con la fine dei colori e la desolata evocazione di un mondo tutto dipinto di nero, con i Rolling Stones che eseguono Paint it black.
