Pane e cioccolata, di Franco Brusati (1974)

di Andrea Lilli –

Questo è il felice incontro sul set tra Nino Manfredi (Castro dei Volsci 1921) e Franco Brusati (Milano 1922), due caratteri che, a parte l’età e una laurea in Legge inutile per entrambi, avevano in comune davvero poco. Di radici contadine il primo, di estrazione alto-borghese il secondo, a cinquant’anni trovano una singolare convergenza su un tema, quello dell’emigrazione, talmente frequentato che sembrava non riservare più sorprese, e concepiscono un film insieme comico e corrosivo, un capolavoro sui generis della commedia all’italiana che ottiene un successo di pubblico e di critica enorme, sconosciuto alla somma della restante filmografia di Brusati regista, grazie soprattutto alla magistrale interpretazione, ma anche alla co-sceneggiatura di Manfredi. Ieri 22 marzo, a cento anni dalla nascita di Nino Manfredi, la Cineteca di Bologna, CSC-Cineteca Nazionale e Lucky Red hanno reso disponibile online la versione restaurata.

La prima ovvia cosa che viene in mente guardando la locandina, è che Pane e cioccolata sia un film su un emigrato italiano in Svizzera. Poi lo vedi, ridi, ti indigni, e dici che sì, è un film tragicomico su orgogli e miserie dell’emigrazione italiana in Svizzera negli anni ’60-‘70 del secolo scorso. Però qualcosa non torna, questa definizione non basta, ti resta un dubbio, rimani perplesso come il cameriere mancato Giovanni ‘Nino’ Garofoli nell’ultima scena. Rifletti meglio, ricollochi il film nei suoi anni, quelli successivi al referendum 1970 voluto dal populista Schwarzenbach (suo lo slogan Prima gli svizzeri, poi saccheggiato altrove) contro “l’invasione dei forestieri”, tentativo di espellere trecentomila immigrati soprattutto italiani, per fortuna fallito, anche se di poco. E allora capisci che il tema centrale di Pane e cioccolata non è tanto il malessere del migrante sul suolo degli svizzeri, quanto il benessere dello svizzero sulla pelle dei migranti, complice il menefreghismo degli italiani benestanti in patria. Ci ricorda sì i disagi degli immigrati, ma è anzitutto un film che, a cominciare dal titolo, svela le ipocrisie di chi li sfrutta senza pudore, mantenendo le distanze.

Pane significa la sopravvivenza, la fame, il povero, il rifugiato, il migrante (italiano, ma nel film anche turco, greco, spagnolo). Cioccolata significa il vivere bene, la raffinatezza, il residente (svizzero o italiano che sia) ricco. Pane è la risposta al bisogno, Cioccolata è il lusso riservato solo a chi può concedersi certi piaceri; e poi ci vuole stile per mangiare la cioccolata con discrezione, senza far rumore, senza disturbare un quartetto d’archi sul prato.

Non tutti possono permettersi tutto. Se il pane vale uno, la cioccolata vale dieci. Un panino con la frittata costa tre, un pollo al ristorante chic trenta. Per dormire basta un lettino, una baracca (il pollaio è gratis), ma se vuoi una villa sul lago con giardino paghi un milione, servitù esclusa. Dunque ci vogliono tanti soldi per avere la cioccolata, un buon pranzo, la villa con giardino, soldi che il povero disoccupato non possiede, mentre ha un sacco di tempo libero. E per tenerla in ordine, la villa, per cucinare e servirsi il pranzetto, per allevare e ammazzare il pollo, per fabbricare la cioccolata il ricco che non ha tempo chiama l’immigrato, se quei lavori sono antipatici ad altri svizzeri. Gli paga il pane, le uova e un lettino, e il viaggio in treno, perfino: tanto basta per convincere un uomo a spostarsi, lasciando la propria terra ingenerosa, gli affetti e le abitudini.

Se il suo impiego dura meno di alcuni mesi, non è necessario che l’immigrato porti con sé decorazioni pittoresche come la famiglia, la lingua, la cultura, la religione, che poi sarebbero d’impaccio alle prestazioni. In cambio il ricco ha la cioccolata, il pranzo al ristorante, la villa, dopodiché l’immigrato se ne può tornare da dove è venuto. Se invece il ricco ha bisogno del lavoro dell’immigrato per più tempo, i familiari possono anche raggiungerlo (solo quelli stretti, mica tutti): così che l’emi-uomo è più grato. Del resto, alla lunga il suo piangere fa male al ricco.

Queste cose Manfredi le aveva vissute in famiglia: la Ciociaria era una terra di emigrazione. Ecco dunque Nino cameriere stagionale in prova arrangiarsi alla meglio in un ristorante di lusso, in competizione diretta con un altro immigrato, un turco taciturno e servile come si conviene. Il collega spagnolo furbo e ladro ha già ottenuto il posto fisso, ma Nino non prende esempio da lui, è troppo ingenuo. Commette una leggerezza, tollerata in patria ma inammissibile tra gente “che non è fredda, è civile”: orina su un muretto, senza accorgersi di stare nel campo visivo di gente civile, e fornita di macchina fotografica. Persa con un autogol la sfida col turco, Nino si vergogna e cerca il riscatto. Straccia il foglio di via, si rifugia da Elena (Anna Karina), esule greca fuggita dal regime dei colonnelli, che nasconde in casa il proprio figlio. Nasce un sentimento, ma sia Nino che Elena non possono pensare di coltivare rose prima di avere garantito il pane. E allora, mentre lei accetta la corte di un poliziotto svizzero, Nino chiede aiuto patriottico a un grande imprenditore italiano (Johnny Dorelli), migrante fiscale nel paradiso degli evasori.

L’industriale gli offre un impiego e lo convince ad affidargli tutti i suoi risparmi, per poi trascinarlo in rovina: travolto dalla bancarotta, l’italiano ricco muore suicida tra le braccia del sempre più povero Nino, che non si rassegna a tornare in Italia sconfitto. Rintraccia gli ex compagni di lavoro in miniera, rispolvera l’antica solidarietà condita da canzoni sanguigne con cui sfogare la frustrazione – e qui Manfredi offre un saggio di grande versatilità cabarettistica. Poi s’imbatte in un profittatore piemontese che lo indirizza verso la bolgia più grottesca del suo inferno: una famiglia campana che vive e lavora clandestinamente in un allevamento di polli, dove la condizione umana e quella avicola si confondono, portando un Nino in crisi profonda a fare al nonno (Ugo D’Alessio) “Una semplice domanda: ma chi sono io? Come mi vedete? Sono come voi?”.

La risposta diventa difficile, quando ti senti estraneo alla vita dei tuoi connazionali in una terra straniera e ostile, in una società che traccia linee nette seppur invisibili tra padroni e servi, svizzeri e cincali (come chiamavano gli italiani, dal “cinque” urlato nel gioco della morra, accostandoli malignamente agli zingari), steccati fra biondi/alti/belli e bruni/bassi/brutti, ricchi che mangiano il gelato e poveri che si accontentano di guardarli mangiare attraverso i recinti in cui sono confinati.

E visto che dignità e rispetto sono privilegi legati al colore dei capelli, Nino prova a farsi biondo e germanofono: vuole sapere come si sta a non essere disprezzato, almeno per un pomeriggio.

Passeggia a testa alta e tinta, entra in un bar, ordina una birra chiara (al solito cameriere italiano), ammicca ad una escort spagnola pure lei bionda, avendo a sua volta una parrucca mainstream, si unisce al tifo antitaliano davanti alla tv, che – fatalità – trasmette una partita della nostra Nazionale. I gesti e i dialoghi sono goffi e patetici, ma Nino prosegue la finzione, finché un gol di Capello gli fa dimenticare la capigliatura. Nino esulta di cuore, si ritrova, rivendica la propria identità tra lo sconcerto di tutti, che poi insultano il ciarlatano, lo sbattono fuori quando lui, ormai sull’orlo della follia, spacca la propria immagine in uno specchio.

Altro foglio di via, altro treno della vergogna. Arriva Elena, trafelata, con un permesso di soggiorno strappato alle autorità elvetiche e una supplica, amorevole: “Nino, scegli quello che vuoi, Italia o Svizzera, o un altro Paese. Ma scegli di vivere, non arrenderti mai!”, per un’estrema possibilità di riscatto. Potrebbe finalmente essere il momento della verità tra i due, ma ancora una volta la scintilla viene trascurata e spenta. Su Nino, completamente disorientato, incombe la disillusione, la rassegnazione. Sale sul treno, stavolta parte. Però di fronte a lui un gruppo di emigrati intona Simmo ‘e Napule, paisa’, e allora blocca il treno, scende.

Rimane là, fermo con la valigia sui binari del traforo del Sempione, asino di Buridano mortalmente indeciso tra un inferno e l’altro, egualmente distanti da lui. Disgustato tanto dal razzismo degli sfruttatori quanto dal fatalismo accondiscendente degli sfruttati, Nino umile e testardo rifiuta la triste assuefazione del Chi ha dato ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto ha avuto, scurdammoce ‘o passato… Ogge a te, dimane a me, e resta in attesa di vivere. O di morire. Cinquant’anni dopo, al posto di James Schwarzenbach, è un tal Lorenzo Quadri, biondo, ad agitare lo spauracchio degli immigrati barbarici, a strillare Prima i ticinesi. Al posto degli italiani, ci sono gli extracomunitari.


  • Film restaurato disponibile sulla piattaforma online ‘Il Cinema Ritrovato fuori sala’

Nino Manfredi e Franco Brusati

In Pane e Cioccolata ho voluto esprimere la mia tenerezza per gli infelici e per i reietti, ma ho mostrato anche tutta la mia indignazione per un Paese che preferisce cantare sui guai dei propri figli sfortunati, anziché provvedere a rendere più umana la loro condizione.

Franco Brusati – Il Corriere della Sera, 1974

3 risposte a "Pane e cioccolata, di Franco Brusati (1974)"

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  1. Bravo! Bellissima recensione. Rende davvero interessante la (ri) visione del film,il ricordo di Nino, di quei tragici anni per tanti italiani. E di un sottoproletariato sfruttato proprio intenzionalmente, che non si è mai vendicato che non ha mai avuto e non avrà mai niente.

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