Green Book, di Peter Farrelly (USA 2018)

di Andrea Lilli –

Nel secolo scorso c’erano libri tristi di cui un mondo migliore avrebbe fatto volentieri a meno. Ci sono ora film pregevoli basati su quei libri, come per un provvidenziale meccanismo di compensazione. Oggi 23 aprile, Giornata Mondiale del Libro, ricordiamo una pubblicazione che purtroppo ebbe molto successo, scritta nel 1936 da Victor Hugo Green, ex impiegato delle poste di Harlem: The Negro Motorist (dal 1951: The Negro Travelers’) Green Book, meglio noto come The Green Book. Una guida turistica degli USA ideata da un afroamericano e destinata ai soli viaggiatori di pelle scura, aggiornata annualmente fino al 1966, che ha suggerito per trent’anni alberghi, ristoranti, negozi etc. in cui i ‘negri’ potessero accedere senza essere malvisti, insultati, denunciati per il solo fatto di esistere. Un libro infame quanto utile, necessario ‘per la sicurezza dei viaggiatori di colore’, che non sarebbe mai stato stampato se in America fosse stato praticato un americanissimo principio di uguaglianza: “Noi riteniamo che sono evidenti per sé stesse queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti ci sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”. Così recita, solenne, l’atto fondativo della patria di George Floyd e Derek Chauvin, la Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio 1776.

È questo il libro che aiuta il pianista Donald ‘Doc’ Shirley e il suo autista-bodyguard Frank ‘Tony Lip’ Vallelonga a sopravvivere durante un viaggio di due mesi per gli Stati del Sud. La storia è vera, e inizia a New York nel 1962. Don Shirley (Mahershala Ali) è raffinato, colto, educato, flemmatico, laureato in psicologia, diplomato al conservatorio di Leningrado, genio musicale, suona esclusivamente su pianoforti Steinway, abita da solo in un lussuoso appartamento nello stesso palazzo della Carnegie Hall. Ma ha una pelle nera. Per tenere senza troppi rischi per la propria incolumità una serie di concerti nelle città più razziste d’America, assume Tony (Viggo Mortensen), un buttafuori italoamericano ignorante, corpulento, rozzo, manesco, impulsivo, sboccato, razzista, che tiene famiglia e abita nel Bronx. Ma ha un cuore d’oro.

I due sono i classici estremi opposti, quindi perfettamente complementari tra loro. Tony diffida dei neri, li chiama melanzane, sacchi di carbone. Se la moglie – santa donna – offre una limonata a due operai colored intervenuti ad aggiustare il pavimento, Tony prende con schifo i due bicchieri vuoti e li butta nel secchio. È un bravo pugile, un efficace persuasore (Lip = becco), spesso bugiardo, un mangiatore e fumatore accanito, magari nello stesso momento. Viggo Mortensen, nato a Manhattan da una statunitense e un danese, è fenomenale nella parte dell’italoamericano. Gesticola, parla, si muove, si comporta con la moglie e coi numerosi parenti, sbruffoneggia con gli amici come il più degno dei soci del Sons of Licata Social Club. Per fare l’omo de panza, omo de sostanza e indossare canottiere nostrane extralarge, ha dovuto seguire una ferrea dieta al contrario.

Di fronte a lui c’è il Doc. Donald W. Shirley a due anni ha imparato a suonare la spinetta da sua madre, poi ha avuto una carriera folgorante come compositore e pianista di musica classica. Sempre controllato, preciso, contenuto, padrone di se stesso. Sempre, o quasi. Ha le sue valvole di sfogo: il trono pacchiano, una collezione enorme di oggetti esotici, la bottiglia di whisky la sera, incontri clandestini. Vorrebbe dimostrare tutto il suo talento come interprete di musica classica, ma il mondo non è ancora pronto ad accettare che Chopin, Liszt, Debussy vengano interpretati al meglio da un ‘negro’. E allora, discriminato, condannato al cliché dell’intrattenimento jazz, lui affronta in contropiede il mondo segregazionista: con il suo trio porta il repertorio classico e contemporaneo insieme a quello jazz in giro per l’America. Soprattutto, nel profondo Sud razzista. Crede nel potere della musica, per cambiare le persone. La flemma duttile di Mahershala Ali, premio Oscar come migliore attore non protagonista in questo film, è perfetta per il ruolo.

Inizia un road movie particolare: diversamente dal solito canovaccio riconciliante in cui il padrone bianco fraternizza con il subordinato nero (da A spasso con Daisy a Quasi amici), qui troviamo il contrario: il principe è nero, il povero è bianco. Non solo: il bianco è italoamericano, quindi lui pure discriminato dai wasp; il nero sa il russo, conosce personalmente i Kennedy, ma non sa chi sia Aretha Franklin, non ha mai assaggiato il pollo fritto, a differenza del bianco. In una scena carica di tensione, Tony rivendica il fatto di capire meglio di Doc il disagio della gente di colore, sostiene di essere più nero lui, accusa Shirley di essere un negro d’élite, un privilegiato estraneo alla lotta per la sopravvivenza. Doc ribatte che, al di fuori dei concerti, lui sa molto meglio di Vallelonga cosa significhi essere respinto, malmenato, escluso dalla società dei bianchi. Quante sfumature ci sono, tra un bianco e un nero. E che varietà di generi musicali, in questo film: Erik Satie e Chubby Checker, Nat King Cole e Chopin, Debussy e Little Richard.

I dialoghi in macchina e le esperienze per strada aiutano l’intesa tra i due. Si confrontano con il cibo, la musica, gli ipocriti, i poliziotti, i camerieri, e il rapporto di sopportazione simbiotica si trasforma in una leale amicizia, grazie alla quale il pianista trova nell’autista una protezione sicura in ambienti ostili, mentre l’autista scorge nel pianista un modello di virtù (“La violenza non serve, si vince mantenendo la dignità“) che non aveva mai immaginato, un nuovo tipo di coraggio silenzioso: artistico e filosofico, un’autorevolezza slegata dalla forza fisica. E un complice nella corrispondenza epistolare con la moglie.

Il viaggio attraversa gli Stati Uniti e i pregiudizi sui neri, sugli italoamericani senza imprigionare in rigidi stereotipi nessun’altra categoria (poliziotti, musicisti, mafiosi), e questo è un pregio di Green Book, che però nel finale sembra esaurire la vena creativa e anarchica cedendo al più classico degli happy end natalizi. Un quadro consolatorio, in tempi di tensioni razziali purtroppo ancora acute, non ignorabile dalla giuria degli Academy Awards, che nel 2019 ha consegnato al film ben tre statuette dorate, di cui una agli abili sceneggiatori. Uno dei quali, Nick Vallelonga, è il figlio di Frank Anthony Vallelonga, detto Tony Lip, attore e amico di Donald W. Shirley.


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