di Andrea Lilli –
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Ultimo episodio di una storia lunga 35 anni. Tutto cominciò a Roma, fine anni ’80. Pasquale Petrolo, da Torpignattara, e Claudio Gregori, da Prati, autori di fumetti, si conoscono nelle stanze di una casa editrice dal nome ambizioso – Acme – che infatti fallisce poco dopo, nel 1991. L’anno successivo, spinti dalla fame, i due si offrono nei locali notturni come frontmen di un gruppo rock demenziale, Latte & i Suoi Derivati (LSD), incoraggiati da una presunta, vaga somiglianza fisica coi mitici Blues Brothers. La band raccoglie e prosegue la nobile missione degli Squallor e degli Skiantos, coniugando su coordinate romane il gusto anarchico per la parodia, la tradizione della canzone italiana e la passione per il Rock & i Suoi Sottogeneri. Da lì inizia un fertile percorso ludico-artistico all’insegna dello sberleffo del duo che, mentre prosegue l’attività fumettistica e musicale (tra le altre formazioni nasce il gruppo Lillo e i vagabondi, caro al sottoscritto per motivi onomastici), raggiunge sempre maggior pubblico a teatro, in televisione, alla radio e al cinema. Mai dimentichi dei tempi di vacche magre, i due lattai arraffano più contratti che possono. Non smetteranno più di farlo.
“Hai raggiunto il successo nel tuo campo quando non sai se quello che stai facendo è lavoro o gioco.”
Warren Beatty
Gli idoli delle donne è il loro lavoro/gioco più recente, codiretto da Eros Puglielli: un’ora e mezza di leggerezza surreale, preziosa come una pioggia in questi tempi siccitosi e cupi. Un film che Lillo e Greg hanno girato con evidente sollazzo, sbizzarrendosi senza scrupoli in gag e citazioni cinematografiche. A cominciare dal titolo, che omaggia un classico della comicità senza pretese come il film di Jerry Lewis, per proseguire nel look dei personaggi, nella sceneggiatura, nei commenti musicali.
La storia è quella di Filippo, gigolò a tempo pieno, professionista tra i più richiesti, magnetico nel fisico quanto scoraggiante nell’eloquio: quando apre bocca l’aria si ammorba di frasi fatte, banalità e luoghi comuni. Il profilo statuario viene però deturpato in un terribile incidente stradale, provocato dalla passione di un tassista per la musica classica. Filippo sopravvive ma, allergico al cortisone, il corpo perfetto è diventato irrimediabilmente ordinario, si è arrotondato, e così il viso, gonfio, col naso a patata; insomma Filippo il Bello si è trasformato in Lillo, mentre il difetto peggiore, l’ovvietà delle sue battute scontate, è rimasto invariato. E se prima Filippo lavorava tanto e preferibilmente in silenzio, ora non lavora più. Angosciato dall’impossibilità di esercitare l’unico mestiere di cui sarebbe capace, raggiunge in una lontana isola tropicale Max (Greg), sommo specialista del desiderio fisico femminile, uscito dal mondo dei gigolò a causa dell’unico, ma fatale, cedimento sentimentale della sua vita.
Arbiter elegantiae paziente e scrupoloso, Max farà il possibile per riaddestrare il povero Filippo, rispolverando tutti i trucchi – compreso l’irresistibile soul gazing, lo sguardo tantrico nell’anima – tenterà di riportarlo a livelli competitivi o perlomeno dignitosi nel mercato dei giacigli muliebri, ma il caso è davvero senza speranza, così come, secondo certe analisi cliniche giunte nel frattempo, risulterebbe compromessa la salute di Max.

Filippo torna a casa sconfitto. Vinto dalla frustrazione sta per compiere il gesto estremo, incoraggiato da un solerte vicino di casa, il necrofilo ragionier Bardozzi, quando lo raggiunge una telefonata provvidenziale: alla manager restava a disposizione solo quel numero, per soddisfare le voglie improrogabili di Juanita (Marina Valdemoro Maina ovvero la webstar Maryna, buona prova al primo film), figlia di uno spietato narcotrafficante colombiano (un ottimo Corrado Guzzanti), in trasferta per un affare da concludere con la ‘ndrangheta calabrese. Quest’ultimo, inaspettato incarico lavorativo stravolge in extremis la vita di Filippo, mentre anche l’orizzonte di Max si riallarga. In bilico tra il machete del boss Joaquim e i maiali antropofagi di Peppe u’ Cannistru, contro ogni previsione i due sventurati trionferanno, la missione impossibile sarà portata a termine e il letto tornerà a sorridere a Filippo nelle battaglie amorose, mentre noi continueremo a farlo -sorridere- fino ai titoli di coda.

Non è facile far ridere con leggerezza e intelligenza al cinema, specie nel settore ‘gigolò’, ma qui Lillo & Greg ci riescono, e non solo: divertono divertendosi. Per almeno due motivi. Primo, perché si tolgono lo sfizio di farcire la storia con citazioni in libertà (Un uomo da marciapiede, Gli Incredibili, vari 007), con personaggi secondari improbabili (il deejay di Radio Coatta Classica, la strega calabrese, Bardozzi, Malore) e accessori fantastici (l’Occhio mistico, la soppressata gigante). Ingredienti aggiuntivi surreali e non necessari che corrono il rischio di appesantire il tutto, e tuttavia qui il rischio paga, visto che tali diversivi non ostacolano il racconto, anzi lo arricchiscono di un gentile nonsense paradadaista, grazie anche ad un montaggio sapiente.
Secondo, perché i due prendono ferocemente per il culo tutti – come è nel loro stile da trent’anni –, sempre e comunque, senza prendersi sul serio. Mai. Ed è questo gusto del dissacramento integrale la massima virtù di Lillo & Greg, è in questo cinismo integralista ma bonario in salsa romana con la mentuccia che può trasformare accigliati aruspici in chef della trippa, il segreto della loro ricetta per una variante digeribile, esilarante del soul gazing.

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