di Laura Pozzi
“Mi ha spinto a fare questo film lo sperpero che si fa di tutto in questa civiltà di massa, dove presto l’individuo non esisterà più. Questa immensa impresa di demolizione, dove noi periremo laddove abbiamo creduto di vivere, la si deve anche all’incredibile indifferenza di tutti, esclusi certi giovani d’oggi più lucidi”.
Questo quanto dichiara Robert Bresson a proposito de Il diavolo probabilmente, penultima pellicola realizzata nel 1977. Un’opera ambiziosa, spiazzante, controversa nella quale il regista riversa il suo più totale e profondo pessimismo (condito da una sana dose di comprensibile disgusto) riguardo al futuro dell’uomo, un essere votato inesorabilmente all’autodistruzione. Bresson all’epoca non è più un ragazzino, (ha ben 76 anni), ma non teme il confronto con tematiche incandescenti apparentemente lontane e poco affini al rigore, all’austerita’ e alla coerenza delle opere precedenti. Alla sua uscita, come da copione il film sarà accolto con molte riserve e per certi versi considerato come il canto del cigno di um attempato moralista. A parer nostro niente di più falso, perché Bresson è un maestro di statura incomparabile senza il quale la storia del cinema non sarebbe quella che e perché nonostante la sua profonda cultura e amore per la filosofia non è minimamente interessato a salire in cattedra. Il suo unico interesse risiede nel dar voce ed espressione ai suoi pensieri più reconditi e per farlo si affida ai giovani: attenzione, non giovani qualunque, ma quelli più lucidi, capaci di saper vedere talmente chiaro, da essere considerati soggetti bordeline da psicanalizzare.
Il film si apre su un fatto di cronaca, il suicidio/omicidio di un giovane trovato senza vita nel cimitero di Père Lachaise. Il ragazzo in questione si chiama Charles e la sua vicenda si snoda attraverso un unico flashback, dove vengono rievocati gli ultimi sei mesi della sua vita. Un epilogo così tragico farebbe supporre un’esistenza contornata da oscuri presagi, in realtà Charles è un silente antieroe dall’aspetto cristologico, scelto da Bresson come testimone ideale degli orrori del mondo. Il suo eroismo astratto e intangibile consiste nel totale rifiuto di una società completamente allo sbando, nelle mani di un diavolo probabilmente, reso invincibile dalla totale indifferenza dell’uomo che incapace di reagire, stipula una diabolica alleanza tramutandosi nel suo complice prediletto. Le conseguenze del patto non si fanno attendere e sono facilmente ravvisabili nelle immagini impietose che ci vengono mostrate: inquinamento tecnologia, degrado, disprezzo per la natura, vere e proprie armi di distruzione di massa lanciate come bombe ad orologeria non si capisce bene in nome di cosa. Non sa dirlo nemmeno Bresson al quale non resta che accettare la sfida e scortare il suo svagato paladino sul terreno accidentato di una fatale via crucis. Le giornate di Charles si susseguono nell’inerzia più totale, nel godimento più sfrenato, nell’apparente rassegnazione di un giovane privo di ideali. L’ amore, la religione, gli slogan nulla sembra turbare il suo volto inespressivo, a parte un pensiero ricorrente: il suicidio, inteso come unico rimedio per sottrarsi alle fiamme ardenti di un inferno terrestre. Meglio andarsene quando si è in tempo, quando il libero arbitrio della giovinezza lascia spazio alla possibilità e volontà di decidere del proprio destino, anche se ciò corrisponde alla sua negazione.
“Dottore, io non sono malato…la mia malattia è di vedere chiaro”. Il senso del film, il suo fine ultimo è stigmatizzato nell’impassibile e distaccata confessione di Charles allo psicanalista. Ma non è il giovane a parlare o meglio a formulare quei pensieri sublimi che cercherà invano prima di morire. Lui si limita a recitare, a dar voce alle ossessioni del suo grande mentore, ormai troppo anziano per esporsi in prima persona.
Come spesso si è portati a pensare Il diavolo probabilmente, non è un film sui giovani post sessantottini. Lo dimostra la tanto discussa recitazione fortemente voluta da Bresson. I suoi attori sono maschere inespressive, che sembrano recitare battute prese in prestito da qualcun’ altro. Secondo il regista francese l’attore non doveva avere coscienza del proprio personaggio, in modo da garantire un’efficace non identificazione con lo spettatore. In effetti risulta difficile entrare in empatia con personaggi tanto distanti emotivamente, così come diventa ardua la lettura di una messinscena sgrammaticata, estrema, seppur consona ai contenuti. I personaggi sono spesso ripresi all’altezza del bacino, i volti restano volutamente fuori dall’inquadratura, la macchina da presa si sofferma su immagini e dettagli privi di senso disseminate dal continuo via vai delle auto e dagli stridenti rumori del clacson. Si respira un’aria pesante di immente catastrofe, dove nessuna forma di vita sembra poter sopravvivere.
Sono passati più di quarant’anni da allora, Bresson ha lasciato il nostro infausto pianeta nel 1999, l’estinzione dell’uomo non è ancora avvenuta, ma le sue immagini e riflessioni restano di sconvolgente attualità. E la sua modernità assomiglia sempre più a un triste presagio.
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