di A. C.
Il primo dei film americani di Wong è stato prodotto dalla Miramax per volere di Quentin Tarantino, più sotto l’influenza e il fascino della nouvelle vague di Godard che del cinema tutto azione esplosiva, sangue e budella cui ci ha abituato. Durante una pausa della lavorazione di ‘Ashes of time’ a causa di problemi di budget, Wong Kar-wai e il suo direttore della fotografia australiano Christopher Doyle girarono “Chungking Express” in soli 23 giorni, usando una macchina da presa a mano per catturare il cuore pulsante della vita dei più trafficati distretti commerciali di Hong Kong. Qui hanno luogo, parallelamente, le vicende personali e sentimentali di due poliziotti cinesi.
Il primo n.223 (Takeshi Kaneshiro), appena lasciato dalla fidanzata, si imbatte in una enigmatica donna (Brigitte Lin) in impermeabile, parrucca bionda e occhiali da sole, e se ne innamora, ignaro del fatto che sia implicata in un traffico di droga. Il secondo, n.663 (Tony Leung Chin-Wai),anch’egli appena mollato dalla compagna, frequenta abitualmente un chiosco in cui lavora una ragazza (Faye Wang) che lo corteggia in maniera del tutto insolita, pulendo accuratamente il suo appartamento senza che egli se ne accorga, mentre ascolta ininterrottamente ‘California dreamin’’, dei Mamas and Papas.
Il regista Wong Kar-wai racconta la solitudine dei suoi protagonisti all’interno di una caotica metropoli, che, seppur grande, racchiude le vicende dei personaggi in spazi stretti e limitati.
Tema ricorrente trattato da Kar-wai nella sua filmografia è lo scorrere del tempo isolato dalla percezione umana ed emotiva; si ripete, dunque, anche in questa pellicola, tramite l’utilizzo frequente e virtuosistico dello “step-framing”, tecnica che permette di immobilizzare ogni singolo personaggio rispetto ai movimenti dell’ambiente circostante, incentrando così l’attenzione sugli stessi e sui carichi emotivi che trascinano silenziosamente in mezzo alle masse anonime di persone.
Singolare la regia, alternata tra sequenze statiche e inquadrature manuali e dinamiche, ma allo stesso tempo efficace nell’accompagnare la narrazione col giusto ritmo. Inoltre perfetta è la performance corale degli interpreti come la costante presenza del cibo come simbolo di fame di vita e di amore. Un film che può senza dubbio definirsi poetico, con ogni singolo frame che potrebbe essere a giusta ragione inserito in una galleria d’arte.
Decisamente un’imperdibile perla del cinema asiatico.