‘La pelle che abito’ (2011). Almodóvar e la chirurgica vendetta

 

di Mauro Valentini

Dopo soli due anni dal magnifico ‘gli abbracci spezzati’, Pedro Almodóvar ci mostra l’altra faccia della passione e torna con un film totalmente diverso da ogni altra sua produzione.

Nessun riferimento al passato infatti, crediamo sia possibile per questo “la piel que habito” tanto siamo lontani dalle atmosfere cariche di colori e ammiccamenti allegri e sessuali dei suoi precedenti film.

Qui, al contrario, tutti i protagonisti sono spudoratamente senza sentimenti né morale, in un vortice di spietatezza da far rabbrividire a mano a mano che ci si inerpica per il tortuoso sviluppo della storia. Strano- direte voi- ma non preoccupatevi: Siamo sempre in un film di Almodóvar! E quindi le sorprese e i vezzi artistici e stilistici non mancano di certo, a cominciare dallo svolgimento temporale, che è datato 2012, dove troviamo un noto chirurgo plastico, l’elegante Antonio Banderas, che mostra a un simposio sulle deturpazioni facciali post-ustioni alcune sue mirabili scoperte riguardo ad una transgenica pelle umana resistente al fuoco e alle punture di insetto.

Nella sua magnifica casa nelle colline di Toledo però, il noto chirurgo continua la sua ricerca, intento a esperimenti segreti e misteriosi e a trapiantare pelle, come un novello Frankenstein, sul corpo di una ragazza. Una meraviglia estetica minuta e bellissima che appare consenziente e che ha lo sguardo che trafigge come un dardo. Lei che, seppur segregata in questa reggia moderna e guardata a vista con monitor in ogni angolo, appare inspiegabilmente serena.

Questo quadro così intricato verrà piano piano svelato con flashback continui, a raccontarci di una storia dolorosa ma fatta di protagonisti a loro modo tutti mediocri e meschini nei sentimenti e nelle azioni.

Un’opera che sorprende appunto per il pessimismo che avvolge Almodóvar e che sembra ormai esser il filo conduttore della sua ultima parte di carriera, lui che ha sempre raccontato di grandi sofferenze causate dal forte sentimentalismo e purezza dei suoi protagonisti, sentimenti che qui mancano sia al medico che alla ragazza prigioniera e via via a tutti quelli che si incontreranno nella storia: personaggi spietati e senza etica quasi fossero usciti da un film di Tarantino.

Rimangono negli occhi, le sempre splendide inquadrature, i poetici primi piani delle donne del film, a cui Almodóvar chiede sempre di raccontare con gli occhi i sentimenti più profondi, e alcune trovate davvero da artista geniale, come il megaschermo con cui Banderas scruta e ammira la sua cavia umana.

Si può leggere nella storia una filosofica interpretazione della tematica dell’importanza dell’apparire (appunto della pelle che si abita) rispetto all’essere, e al proprio intimo pensiero interiore, e alcuni cenni rimandano esplicitamente a questo, come la maniacale pratica dello yoga della bellissima prigioniera, e l’innamoramento del ‘dottor’ Banderas per quel corpo che lui stesso ha ricostruito totalmente distruggendo quello che era prima per un senso estetico tutto proprio.

Di Banderas crediamo di poter dire tutto il bene possibile, relegato nel ruolo di un malvagio che controlla le sue reazioni fisiche: non era facile trasmettere quella spietatezza con il solo sguardo, lui che è abituato ad una fisicità in scena sempre notevole. Elena Anaya poi, restituisce un complicata e caleidoscopica prova d’attrice e capace di condensare in quel suo incedere danzante fisico e macabro tutta l’eleganza tragica della sua storia.

 

 

2 risposte a "‘La pelle che abito’ (2011). Almodóvar e la chirurgica vendetta"

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