‘Pinocchio’ di Matteo Garrone

Di Corinne Vosa

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“C’era una volta…
– Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
– No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il fuoco e per riscaldare le stanze.”

Garrone torna all’avventura intrapresa con Il racconto dei racconti, addentrandosi ancora una volta in quel territorio ibrido tra fantasia e realtà e giocando nuovamente sulla mescolanza stilistica che nasce dalla fusione di onirico e verosimile. Il linguaggio fiabesco della poetica di Garrone alla crudezza di un realismo magico ingloba la visionarietà del gotico, sia nelle sue forme liriche ed eleganti che in quelle più grottesche e satiriche. Cosi strane combinazioni prendono vita e la bellezza si alterna al disgusto, la grazia alla goffaggine.

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Questa versione di Pinocchio è tanto fedele quanto personale ed esuberante. Garrone ha fatto indubbiamente propria l’opera di Collodi, plasmandola visivamente a immagine e somiglianza del proprio cinema, senza stravolgerne l’essenza o la consequenzialità narrativa.

Salta all’occhio la potenza visiva del film, la cui estetica è certamente uno dei valori più preziosi, con una cura eccellente nei dettagli formali. Scenografie, trucco e costumi sono l’arma principale per creare un mondo pieno d’incanto e meraviglia, dove ben presto notiamo che alla verosimiglianza della povertà e della vita di paese si affianca, in una paradossale e perfetta armonia, la compresenza dell’incredibile, con il ricorrere di creature magiche spesso zoomorfe. Inoltre la trama in sé permette a Garrone di giocare su una delle tematiche a lui care nel cinema fantastico: la metamorfosi.

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Di trasformazioni era pieno Il racconto dei racconti e così questo film: ci sono innanzitutto quelle richieste dal racconto di Collodi, come i cambiamenti corporei di Pinocchio e la metamorfosi dei bambini in asini, scene incisive e su cui Garrone si focalizza quel tanto necessario. In realtà sui mutamenti fisici di Pinocchio non c’è un’insistenza estrema, soprattutto se lo si confronta con la famosa versione televisiva rimasta nella storia di Luigi Comencini, dove alla condizione di burattino si alternava frequentemente quella di bambino vero e proprio. La scelta di Garrone è invece rimanere fedele al racconto e lasciare pertanto Pinocchio fino alla fine in una condizione di vita non totale, un oggetto animato che si aggira normalmente in un mondo che poi non è così tanto ordinario da sorprendersene veramente.

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La Fata dai capelli turchini, una figura eterea e lugubre al contempo, porta con sé l’immaginario estetico del gotico vittoriano, la fragilità e mutevolezza della vita e il fascino e la poesia di una bellezza quasi tubercolotica. Bambina e donna, si rivela sorella e madre, salvatrice e redentrice. Un personaggio che rimanda a icone femminili come la Vergine Maria o Iside; colei che conduce alla grazia “divina“ l’anima tormentata di Pinocchio. Come diceva Benedetto Croce, “Il legno, in cui è tagliato Pinocchio, è l’umanità”. In fondo questo povero burattino è umano proprio nelle sue debolezze, nella sua propensione al vizio e alla tentazione. Il suo è il cammino umano verso la consapevolezza e la maturità.

 

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La colonna sonora di Dario Marianelli, amabilmente magnetica e fiabesca, accompagna magicamente ogni passaggio del film armonizzandosi a questo in una totale sintonia tra musica e immagini. Sublime anche la fotografia di Nicolaj Bruel, che ci regala componimenti visivi esaltanti, ispirandosi certamente anche al macrocosmo della Storia dell’Arte.

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Un altro punto di forza del film è costituito dalla formazione di un cast che regala prove attoriali di altissimo livello, a cominciare dal personaggio più incisivo del film, Geppetto, interpretato da Roberto Benigni, che dopo aver dato corpo in passato proprio a Pinocchio ricopre ora questo ruolo paterno e complementare. Sembra quasi il compimento di un destino ciclico e Benigni colpisce nel segno con la sua capacità di destreggiarsi tra leggerezza e malinconia. Entusiasmante anche la scelta di Gigi Proietti per Mangiafuoco e la versione di Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini del Gatto e la Volpe. Deliziosa la caratterizzazione della Lumaca, irritante ma spassosa quella del maestro e in generale più che soddisfacente la resa dei tanti personaggi secondari che costellano il racconto.

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Il punto interrogativo forse è proprio il protagonista, un Pinocchio (Federico Ielapi) che con la sua inespressività tende a smorzare i momenti di commozione che vengono a generarsi di volta in volta. Se da una parte è ammirevole la capacità di farlo sembrare effettivamente un automa vivente di legno, dall’altra la sua umanità non riesce a scavalcare le barriere dell’accurato trucco. È difficile valutare l’efficacia della potenza emotiva del film, il quale sfiora l’artificiosità e un intellettualismo antropologico che toglie forza alla carica drammatica degli eventi narrati e converte in angoscianti figure solitamente amabili come il Grillo Parlante o il Tonno. Vi si aggiunge una retorica eccessiva che ricorda il sentimentalismo burtoniano, ma che stona forse ancora di più in un contesto visivo nettamente più brutale e angusto. È vero Pinocchio è una favola ricca di insegnamenti ed è giusto che questo aspetto quasi didattico si mantenga, ma forse da Garrone sarebbe stato bello riscontrare ancora più spontaneità e sottintesi, nonché forse una resa maggiormente moderna di alcune di queste morali.

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Indubbiamente è un film affascinante e ricco di bellezza, adatto anche alle famiglie e idoneo al periodo natalizio. Un adattamento inaspettatamente fedele al racconto di Collodi, a cui si attiene diligentemente selezionando con intelligenza le parti più significative e tagliando ciò che risulterebbe superfluo in un’opera cinematografica. Rifiutando il virtuosismo registico ed esaltando invece gli altri elementi artistici e tecnici, il Pinocchio di Garrone risplende nello stile e nella capacità di dare una forma visiva sublime a questo immaginario allegorico immortale.

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