di Federico Bardanzellu.

Cinema e maschere. L’avvento del cinematografo, alla fine del XIX secolo, spazzò via tutti i canoni dello spettacolo teatrale. Ha messo definitivamente una pietra sopra il teatro dei burattini, e lo strumento millenario della maschera derivato dal teatro greco è ormai diventato inutilizzabile. Non sono scomparse però le maschere intese come soggetti facilmente individuabili per il loro abbigliamento e la caratterizzazione comica.
Nate a teatro, nella sua differenziazione in spettacolo di varietà, avanspettacolo, cabaret, rivista o commedia musicale, le maschere di maggior successo hanno trovato la loro consacrazione nel cinema. In alcuni casi, un successo mondiale. Con la costruzione di Cinecittà, a partire dagli anni Trenta del XX secolo, Roma è diventata la città del cinema. Ecco che grazie al cinema la capitale si è sostituita alla Venezia del Settecento come principale palcoscenico delle “nuove maschere” italiane.

L’antesignano: Petrolini con Fortunello e Gastone
Il cinema non era ancora maggiorenne, quando il romano Ettore Petrolini, prendendo spunto dall’omonimo personaggio del Corriere dei Piccoli presentò per la prima volta Fortunello, nella rivista “Zero meno zero” del 1915. Il personaggio, truccato come un clown, entrava in scena camminando a penzoloni in base al ritmo della musica. Proseguiva con le sue elucubrazioni, assurdità e rime grottesche ad un ritmo martellante, suscitando nel pubblico stupore e illogica allegria. Riscosse un grande successo anche tra gli esponenti del movimento futurista, come Filippo Tommaso Marinetti.
Nel 1924, Petrolini presentò nei teatrini romani Gastone. Era l’esemplare rappresentante di un mondo di presunti artisti di varietà di infima categoria. Istrionico e carismatico, dotato dell’affabulante parlantina romanesca, squattrinato, dedito a mille vizi, corteggiatore di tutte le soubrette e ballerine, dai modi esagerati e teatrali. Prima ancora che fosse costruita Cinecittà, Petrolini porterà sia Fortunello che Gastone sul set cinematografico con il film “Nerone” del 1930. Gastone fu reinterpretato sia al teatro che al cinema da Alberto Sordi e Gigi Proietti.

Totò, un napoletano che esordisce a Roma sia al varietà che al cinema
Pur essendo nato a Napoli nel rione Sanità, Antonio Clemente, colui che in seguito alle nozze della madre nubile si chiamò Antonio De Curtis, e infine si definì come Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, ovvero Totò, fece carriera principalmente a Roma. Al Teatro Ambra Jovinelli esordì a soli 18 anni, nel 1916, tra una licenza e l’altra della sua vita militare. Qui conobbe Antonio De Marco che interpretava Don Ciccillo, un personaggio comico a metà tra la maschera e il burattino. Un giorno che De Marco era indisposto, Totò fu scritturato per sostituirlo. La sua interpretazione mandò in visibilio il pubblico. Nel 1949, Totò la riproporrà sul set nel film “Yvonne La Nuit”.
La maschera Totò nacque invece nel 1924, nella Sala Umberto di Via della Mercede. L’attore si presentò sul palcoscenico in bombetta, con un tight troppo largo, una camicia lisa dal colletto basso, una stringa di scarpe per cravatta e un paio di pantaloni a zompafosso. Aveva trasformato i suoi abiti logori nel costume di scena di una vera maschera surreale.

La corporeità del personaggio era data dall’irresistibile mimica facciale e dalla capacità di far roteare gli occhi. Era capace di esprimere smorfie straordinarie allungando il collo e snodando la mandibola in modo da spingere il mento tutto da un lato. Il personaggio creato si sarebbe rivelato furbo, dalla parlantina esilarante e in grado di adattare ogni situazione al proprio tornaconto. In alcuni casi, anche un velleitario seduttore.
La maschera e il burattino Totò trasposti sul set
La trasposizione della maschera dai palcoscenici teatrali sul set cinematografico era ormai matura. La maschera Totò fu portata sul set nel 1937 con il film “Fermo con le mani” di Gero Zambuto. Il film fu girato a Roma ma al Centro Palatino, perché i teatri di Cinecittà erano ancora in allestimento. I registi ebbero intenzione di contrapporre Totò a Chaplin, ma il film non ebbe successo.
Il personaggio originale durò solo per pochi film, poi l’attore Totò si presenterà sul set con altri abiti di scena e senza bombetta. Dell’antica maschera, mantenne però l’inimitabile mimica facciale e la furbizia. Nel frattempo, nel 1942, a teatro, Totò estrasse dal cilindro una sua interpretazione personale del burattino Pinocchio, con le movenze del precedente Don Ciccillo. In Totò a colori, del 1952, l’attore lo ripropose creando – forse – una delle sue performance più memorabili.

Alberto Sordi, la maschera che rappresentò al cinema i nostri difetti
Fu nel secondo dopoguerra che Roma e Cinecittà divennero la capitale della commedia all’italiana. Alberto Sordi s’inventò letteralmente la “maschera” cinematografica di Nando Mericoni. Il personaggio debuttò sullo schermo in un episodio del film “Un giorno in pretura” (1953). Sembra che lo stesso Sordi abbia recitato a soggetto. Mericoni è un giovanottone romano, arrestato per oltraggio al pudore. Da tutti è conosciuto come “l’americano”, per la sua spiccata esterofilia nei confronti del made in USA. È vestito in maglietta bianca e jeans. Nel secondo film, “Un americano a Roma” (1954), dove è protagonista assoluto, aggiungerà il giubbotto di pelle nera da poliziotto statunitense.
Mericoni ostenta una personale conoscenza della lingua inglese, che invece ignora completamente. Conia buffe espressioni in anglo-romanesco come «Polizia der Kansas City» e «Orràit, orràit», deformazione di all right, all right, oppure completamente inventate come “Auanagana”. Proprio tali invenzioni di gergo manderanno in visibilio il pubblico cinematografico. La “maschera” Mericoni tuttavia segna un breve periodo della storia d’Italia, compreso non oltre i limiti del decennio 1944-1954. Nel prosieguo della sua carriera, Sordi intuì e impose al pubblico una maschera molto più penetrante: sé stesso.

La “maschera” Sordi risultò valida sia nel periodo dell’italietta degli anni Cinquanta che in quella del boom economico del decennio successivo. Superando l’orizzonte ristretto della sua città natale, Sordi seppe rappresentare l’italiano medio. Con tutti i suoi difetti: cinico, mammone, sessista, carrierista e spesso vigliacco. Sempre, però, con un sorriso sornione e vagamente beffardo. Alla fine ci ha fatto credere che fossimo veramente tutti come ci ha rappresentato lui. Facendoci dimenticare che, per forza di cose, ogni caratterizzazione – anche quella di Sordi – fa ridere perché estrema, oltre che superficiale e restrittiva.
Carlo Verdone, la sfortuna di essere stato designato “erede” di Sordi
Verdone è stato impropriamente affiancato a Sordi e ciò lo ha condizionato nella sua maturità artistica. Ha portato nel cinema i personaggi ideati ad inizio carriera nell’ambito del cabaret. Debuttò infatti nel 1977 al Teatro Alberichino con “Tali e quali”. L’anno dopo ripropose i suoi personaggi in TV, nella trasmissione “No Stop”. In precedenza si era anche formato al Teatro dei Burattini di Maria Signorelli, avvicinandosi così al mondo delle maschere. Vere e proprie maschere, infatti, sono stati i suoi personaggi, almeno agli inizi della sua attività cinematografica. In particolare, nel suo film di esordio, “Un sacco bello”, Verdone propone contemporaneamente le tre caratterizzazioni che lo hanno reso famoso.

Si tratta di Enzo, il coatto di periferia. Leo, bambinone immaturo e ingenuo, ispirato all’amico Stefano Natale, poi anch’egli attore. Furio, logorroico e ipocondriaco borghese romano trapiantato a Torino. Enzo diventerà Ivano in “Viaggi di nozze” e Armando Feroci in “Gallo Cedrone”. Leo diventerà Mimmo in “Bianco, rosso e Verdone” e, forse, anche il Cristiano di “In viaggio con papà”. Furio diventerà Raniero in “Viaggi di nozze” e Callisto in “Grande grosso e Verdone”.
Avremmo potuto citare altre potenziali maschere nel cinema di ambientazione romana. Come quel Peppe er Pantera interpretato da Gassman nella saga de “I soliti ignoti”. Un vero erede di Rugantino, famoso per il suo motto: «Me n’hanno date, ma quante gliene ho dette!». E – perché no? – anche Capannelle e Tiberio Murgia-Ferribbotte, sempre ne “I soliti Ignoti”. Oppure lo stesso Gassman nel personaggio del “Mattatore”, da lui portato prima a teatro con “I Tromboni”, poi in TV (1957) e, infine, al cinema per Dino Risi. La nostra storia, però, sarebbe andata troppo per le lunghe.
Di certo le maschere, al cinema come al teatro, mettono alla berlina un particolare soggetto o personaggio con tutti i suoi difetti. E ciò agli italiani fa tanto ridere.

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