di Bruno Ciccaglione
La copertina del libro Il limite dello sguardo – Oltre i confini delle immagini di Michele Guerra (professore di Teoria del cinema all’università di Parma), uscito per Raffaello Cortina Editore nel marzo del 2020, mostra l’immagine di una mano che, impugnando un bastone per selfie, sbuca dai blocchi di cemento del Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa e subito ci ammonisce rispetto al modo di rapportarci alle immagini che è tipico del nostro tempo.
Siamo in quello che in un altro saggio Antonio Scurati definisce il tempo della cronaca, ormai sostituitosi a quello della storia, tanto da far scadere “dal tragico all’osceno” (Dal tragico all’osceno – Raccontare la morte nel XXI secolo, Bompiani 2016) e il lavoro di chi produce immagini, tanto più nel mondo del cinema, non può prescindere dall’interrogarsi sul modo più giusto di farlo e dal rispondere alla domanda sul che cosa mostrare e che cosa non mostrare. Tuttavia non si tratta di un problema nuovo per il cinema e soprattutto per quel cinema d’arte che ha voluto occuparsi del tema che forse con maggiore complessità poneva questioni etiche e artistiche fondamentali: il tema della Shoah.
Il libro di Guerra programmaticamente non si occupa di quelle opere – numerosissime – divulgative o addirittura smaccatamente commerciali; su di esse non c’è niente da discutere, sono opere che si qualificano da sé, in quanto opere che esistono proprio perché non si sono poste o si sono poste solo in modo molto superficiale la questione della rappresentabilità della Shoah. Il libro invece sceglie di analizzare alcuni casi paradigmatici (perché poi imitati o presi a riferimento), di opere cinematografiche (ma non solo) i cui autori hanno sviluppato una strategia per evitare l’oscenità nella rappresentazione di fronte al dilemma del “raccontare l’indicibile”.
Si tratta di un libro fondamentale, non solo per lo spettatore che voglia approfondire quanto ricca possa essere la riflessione sulle immagini, ma anche per gli addetti ai lavori, compresi gli autori stessi, che infatti proprio per le scelte formali sono riconoscibili come tali, tanto nelle opere precedenti come in quelle conseguenti a quelle in cui si sono occupati della Shoah. Gradualmente la riflessione si è evoluta, è cambiata nel tempo, la rottura delle convenzioni stilistiche del cinema mainstream è apparsa spesso come qualificante, tanto da suscitare qualche dubbio di segno opposto: di fronte al “contenuto” Auschwitz non è forse eccessivo “discettare di forme”? Ma la questione è decisiva: “Che cosa è per noi oggi un film sulla Shoah? Quali sono i temi che deve toccare? Che cosa deve farci vedere? In quali modi il nostro occhio è ‘ossessionato’ dalla Shoah?” (Premessa dell’autore, pp. 16). Citiamo qui a mo’ di esempio solo alcuni titoli e riferimenti, sperando di stimolare la lettura completa del libro.
Si comincia da Notte e nebbia di Alain Resnais (1956), che giustappone crudissime immagini di repertorio in bianco e nero – sia di provenienza tedesca che di provenienza alleata dopo la liberazione dei campi – alle immagini a colori girate al momento della realizzazione del film. Per valutare questa come le altre opere di cui il libro si occupa, sono preziose le riflessioni di Jacques Rivette ai tempi dei Cahiers du cinéma sulla impossibilità della opzione realistica nel rappresentare la Shoah. Il montaggio parallelo tra immagini di repertorio e immagini contemporanee, assieme alla allerta che costituisce il messaggio – come diceva Levi: se è successo vuol dire che può succedere ancora – sono le scelte formali che evitano “l’abiezione” estetizzante. Un film “da vedere assolutamente”, e che “non può essere oggetto di una critica cinematografica”, scriverà Truffaut, perché in qualche modo è solo la rottura degli schemi classici del cinema, la rottura delle sue convenzioni, a rendere accettabile l’opera.
Molto bello è il capitolo dedicato a Il figlio di Saul (László Nemes, 2015), che è forse l’opera più nota al pubblico contemporaneo, per aver vinto di recente un Oscar come miglior film straniero. La scelta del fuori fuoco, quella del fuori campo sonoro e quella del primo piano quasi ininterrotto sul protagonista (un membro del Sonderkommando, un “portatore di segreti” che pian piano ritrova una propria umanità) sono le scelte formali che fanno di questa opera un caso emblematico: a patto che siamo già consapevoli della Storia, senza che ci sia mostrato in modo nitido e chiaro, proprio il non vedere chiaramente ci fa comprendere quanto avvenuto ad un livello più profondo. Michele Guerra individua i riferimenti che ispirano la scelta formale di Nemes e si tratta di riferimenti molto interessanti: esplicito e confermato da Nemes è il riferimento alle 4 foto effettuate dai membri del Sonderkommando di Auschwitz (fuori fuoco, con inquadrature frettolose e “sbagliate” dovute alla fretta e alla paura di essere scoperti). L’altro riferimento è invece sorprendente e stranamente mai citato dall’autore, né dalla critica: in un passo de I sommersi e i salvati (Einaudi, 1986) Primo Levi sembra descrivere esattamente la scelta formale che molti anni dopo caratterizzerà questo film: “Nella memoria di tutti noi superstiti, e scarsamente poliglotti, i primi giorni di Lager sono rimasti impressi nella forma di un tutto sfocato e frenetico, pieno di fracasso e di furia e privo di significato: un tramestio di personaggi senza nome né volto, annegati in un continuo assordante rumore di fondo, su cui tuttavia la parola umana non affiorava. Un film in grigio e nero, sonoro, ma non parlato”.
Austerlitz (2016) di Sergei Loznitsa prova a portare il cinema in un territorio quasi performativo e videoartistico, filmando i visitatori/turisti di alcuni campi di sterminio. Il regista dirà provocatoriamente che il suo non è un film sulla Shoah, in parte a ragione: eppure nel nostro cercare in questo film, in questi luoghi, quello che non può essere più visto – lo sterminio, appunto – assistiamo alla rivelazione di quest’opera, che ci mostra che cosa sia la Shoah oggi per noi, anche qui con un ammonimento e con un’allerta, nel turbamento che ci prende ad esempio nell’osservare i turisti farsi dei selfie nei luoghi dello sterminio.
Infine, tra le numerose altre citazioni non poteva mancare un lungo capitolo dedicato a Shoah (di Claude Lanzmann, 1986), un’opera spartiacque non solo per il cinema (si pensi al capolavoro letterario di Johnathan Littell Le Benevole, chiaramente molto influenzato dal film di Lanzmann). In Shoah non c’è nessuna immagine di repertorio, ma solo i testimoni e ciò che hanno visto – il che non si può certo ri-vedere in un film – ed i luoghi, così come sono all’epoca delle riprese, tra gli anni ’70 e ’80: i testimoni rivivono per noi attraverso il racconto, incarnando, spesso negli stessi luoghi in cui gli eventi cui hanno assistito si sono svolti. “Sono le storie di chi ha visto, ma non ha capito (le vittime), di chi ha visto, ma ha finto di non vedere (gli abitanti dei paesi intorno ai campi), di chi ha visto, ma ha cercato di nascondere, di rendere invisibile (i carnefici)” (J.Geller, The rites of responsibility: the cinematic rethoric of Claude Lanzmann’s Shoah, 1985 in Film & History, 2002).
Nelle 9 ore di film sono affrontate tutte le questioni teoriche affrontate nel libro, tanto che quando si parla di Shoah si affronta, oltre che un film, anche una summa della riflessione formale sulla rappresentabilità/rappresentazione della Shoah: “il controcampo negato, oppure ritardato o sconcertato; l’insistenza sugli occhi; il parossismo nei luoghi di annientamento (…); la panoramica e il carrello”. Ma in un modo che deve necessariamente rompere ogni convenzione cinematografica per restare senza trucchi, senza inganni. La Shoah diventa “visibile” come una rivelazione, quella di chi incarna nel racconto, senza essere esibita. La voce del testimone, contrapposta alla “menzogna dell’immagine”, crea una imprevista visibilità della Shoah nei luoghi più inattesi, quando la verità incarnata dai racconti è più forte di tutto: in un salone di barbiere in Israele o davanti alle scale di una chiesa cattolica in Polonia, in un bosco silenzioso o lungo il corso di un fiume attraversato in barca al canto di una vecchia canzone tedesca.