Nel corso del tempo, di Wim Wenders (Im Lauf der Zeit, RFT 1976)

di Andrea Lilli

L’estate è la stagione migliore per girare in Germania. Girare per le strade, girare film. Nell’estate del 1975 Wim Wenders gira per centinaia di chilometri con un vecchio camion e una troupe ridotta all’essenziale lungo il confine tra le due Germanie, entra nei piccoli cinema ancora attivi, si concede in sidecar una deviazione familiare verso il Reno, e realizza così in quattro mesi il terzo quadro della “trilogia del viaggio” dopo Alice nelle città e Falso movimento. Con pochi uomini e mezzi, ma con una passione smisurata per il cinema proiettato in sala, quello in via di estinzione.

“Diese Männer bringen was ins Rollen”, Questi uomini qualcosa combinano… Il sottotitolo della locandina originale giocava sul termine Rollen, che significa far girare, movimento (κίνημα, cinema) circolare, ruote, ruoli, musica rock: tutte componenti dinamiche di questo road movie indispensabile per chi voglia capire almeno un poco l’anima di una generazione.

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Nel corso del tempo è tante cose, ma anzitutto è un omaggio rabbioso alle care vecchie sale cinema. A quelle piccole e periferiche, le più fragili. Rabbioso perché morivano sotto gli occhi indifferenti di tutti. Negli anni Settanta la riunificazione tedesca (1990) era ancora lontana, impercettibile, mentre la grande distribuzione e la televisione stavano uccidendo le sale di provincia. Le zone al confine con la Germania Orientale erano le più depresse economicamente, le più trascurate dall’evoluzione del mercato. I vecchi cinema sopravvivevano grazie a film di basso costo e scarsa qualità, spesso crauti-western e soft porno. Oppure chiudevano. E la crisi si stava estendendo alle grandi città.

cinema

Oltre che al maestro Fritz Lang, Wim Wenders ha dedicato questo film ai proiezionisti delle sale in cui è stato girato. Cinema (Lichtspiele: Giochi di luce) con nomi già destinati a scomparire: Schauburg, Roxy, Apollo, C&C, Burg-, Post-, Weisse Wand-Lichtspiele. Platee e gallerie di poche decine di posti, le gomme appiccicate alle poltrone di legno, muri scrostati che probabilmente oggi, nel corso del tempo di 45 anni, sono spariti, demoliti dal nuovo che avanza. La trama, o meglio, la traccia:

V barba

Bruno “King of the Road” (Rüdiger Vogler) è un tecnico proiezionista che vive da due anni nel suo camion-camper-laboratorio. Si sposta da un cinema all’altro, ripara proiettori antiquati, all’occorrenza sostituisce il personale in cabina. Le ruote del suo camion, che si chiama Hermés (Mercurio, il messaggero alato degli dei, protettore dei viaggiatori e della comunicazione) macinano strade deserte per far girare le bobine di pellicola in sale semivuote. Una mattina, mentre si fa la barba sulla sponda occidentale del fiume Elba, un Maggiolino Volkswagen sfreccia a tutta velocità a pochi metri da lui lanciandosi in acqua. Prima che affondi completamente, emerge dal tetto una valigia, seguita da Robert “Kamikaze” (Hanns Zischler), uomo in fuga, sconvolto da una separazione.

Z emerge

I due stringono un’amicizia virile e complice tra anime sole anche se sembrano avere poco in comune, a parte la trentina d’anni d’età (quella del regista). Bruno è un meccanico pragmatico, ha l’aria tranquilla e concreta di chi vive bene da solo, concentrato sul presente. Robert è un pediatra nervoso, tormentato dal passato recente e da uno remoto, e lui da solo non sta bene, non sta bene proprio. Accetta in silenzio l’asciugamano e l’ospitalità che Bruno tacitamente gli offre. I due non sono di molte parole, quindi si capiranno bene per tutto il lungo viaggio che insieme faranno. Questa è l’unica scena prevista nella sceneggiatura iniziale. Il resto della storia è improvvisato, o meglio deciso da Wenders giorno per giorno secondo l’ispirazione della notte precedente le riprese, cogliendo le opportunità e gli imprevisti delle location. Evidentemente stavolta voleva evitare i rischi di una rigida adesione a una scrittura preordinata, letteraria come quella di Peter Handke in Falso movimento. Solo l’itinerario di viaggio era fissato: da Lüneburg a Hof, da nord a sud lungo la frontiera con la RDT. Wenders aveva già fatto due volte quel percorso alla ricerca dei cinema locali ancora attivi. Individuati, si era accordato coi proprietari per le riprese. Così facendo inoltre imparava tante cose sul cinema, sulla sua storia sociale.

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La trama improvvisata, la scelta del bianco e nero, il suono in presa diretta, le comparsate di non professionisti (persone incontrate sul posto, membri della troupe portati sulla scena), la produzione indipendente ovvero i pochi soldi a disposizione: tutti elementi necessari ad un road movie autentico, verace. Ma senza Vogler e Zischler come protagonisti, difficilmente questo sarebbe diventato un cult film. Wenders aveva già lavorato con loro più volte, erano suoi vecchi amici, e su loro misura è tagliato il film, che malgrado le tre ore di durata non pesa affatto. Fondamentali sono stati pure i contributi di due altri storici collaboratori: il fotografo Robby Müller – sfidato da Wenders al confronto con Walker Evans, per gli esterni sorprendentemente simili alla periferia americana anni ’30 – e il montatore Peter Przygodda. E la piacevole, ben calibrata colonna sonora.

Bruno e Robert attraversano campagne, altipiani, zone minerarie, villaggi, città. Come in ogni storia on the road fanno incontri ordinari in posti straordinari, e viceversa. Un uomo disperato, una bella e malinconica bigliettaia di cinema (Lisa Kreuzer, ai tempi compagna di Wenders), meccanici, un maestro, bambini. Un padre. Il percorso di lavoro di Bruno viene intralciato, o arricchito, da due deviazioni necessarie a Robert per sciogliere alcuni vecchi e ancora ingombranti nodi familiari. Il primo con suo padre, tipografo di un giornale locale.

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Lo sorprende tra le sue antiche rotative, macchinari in via d’estinzione come i proiettori, i juke-box, i mangiadischi, le insegne in corsivo al neon e il camion di Bruno, che tutto questo antiquariato contiene e trasporta e tutela come un museo ambulante. Anche il padre di Robert (Rudolf Schündler, che recitò con Fritz Lang ne Il testamento del dottor Mabuse) sembra un pezzo da museo nella divisa da tipografo e nella sua solitudine, ma il figlio è rancoroso e lo inchioda in uno sfogo risentito, a lungo represso negli anni della dittatura paterna. Capiamo il perché nel momento in cui, dopo una notte passata a disporre i caratteri mobili, Robert gli consegna, fresca di stampa, un’edizione speciale del giornale locale, titolo principale “Come rispettare una donna”, riferito alla madre di Robert.

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La seconda deviazione proposta da Robert è in direzione della casa dell’infanzia di Bruno, che visse con la madre in una casa su un’isoletta del Reno, dalle parti della leggendaria curva di Lorelei. Duecento chilometri da fare allegramente a bordo dell’ennesimo oggetto da collezione, un magnifico sidecar BMW offerto dal proprietario suo malgrado. Il film qui prende uno scarto leggero, seppure nella commozione dei ricordi disseppelliti da un King of the Road prima apparentemente invulnerabile. Come nell’episodio del padre di Robert e in altre sequenze, Wenders proietta se stesso con elementi autobiografici: la casa sull’isola (anch’essa in rovina) non è quella da lui vissuta, ma sua madre nacque in un borgo là vicino, e il tesoro nascosto e rinvenuto da Bruno contiene in realtà i primi fumetti posseduti dal piccolo Wim.

Compiuti i riti catartici nei luoghi d’infanzia, i due riprendono il percorso di lavoro di Bruno tra i cinema da assistere. I nostri eroi del Wanderlust di confine – in bilico tra ovest ed est, tra passato e futuro – si ubriacano, litigano, si riconciliano. Finalmente si salutano: King of the Road sul suo camion ‘portavalori’, Kamikaze in un treno e liberato dall’ingombro della sua valigia, in una memorabile sequenza di percorsi paralleli, incrociati e divergenti.

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Nell’ultimo Lichtspiele, il Weisse Wand (Muro Bianco), la responsabile esprime sconsolata una posizione drastica: visto che la programmazione destinata a questi cinema fa schifo, tanto vale chiuderli. Se “il cinema è l’arte di vedere”, quest’arte non vada calpestata nel suo tempio. La scena finale vede Bruno agire di conseguenza.

Dopo la fatica tripla di Nel corso del tempo, che ha scritto, diretto e prodotto, Wenders tornerà nei ranghi dei soggetti altrui e girerà L’amico americano. Una progressiva attrazione per il nuovo continente lo porterà a lavorare negli Stati Uniti nella prima metà degli anni ’80. Ma già sono molte le citazioni americane nelle scenografie di Nel corso del tempo. Ad esempio Easy Rider di Dennis Hopper, Il temerario di Nicholas Ray (Nick’s Film – Lampi sull’acqua sarà del 1980), Sentieri selvaggi di John Ford, L’ultimo spettacolo di Bogdanovich cui Wenders si è ispirato per l’ambientazione nei piccoli cinema. Con la benedizione, sulle pareti ingiallite dei Lichtspiele di frontiera, di una locandina di Robert Mitchum.

croce malta


[Due giorni fa, il 26 maggio, si è spenta Irm Hermann, insieme ad Hanna Schygulla attrice prediletta da Rainer Werner Fassbinder, fondatore alla fine degli anni ’60 con Wim Wenders e altri registi del movimento Neue Deutsche Film (Nuovo cinema tedesco)]

2 risposte a "Nel corso del tempo, di Wim Wenders (Im Lauf der Zeit, RFT 1976)"

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