di Michela Pellegrini

“Là dove si sente la merda, si sente l’essere. L’uomo avrebbe potuto benissimo non andare di corpo, non aprire la tasca anale, ma ha scelto di andare di corpo come avrebbe scelto di vivere invece di acconsentire a vivere morto.”
La grande abbuffata (1973), per forza e potenza sembra rappresentare all’interno della filmografia di Marco Ferreri forse il punto focale, il suo acme. Si ritrovano all’interno, in uno stato splendente e in una sintesi perfetta tutti i simboli e le ossessioni tipiche della poetica ferreriana: su tutti la morte e la donna. Fischiato a Cannes e presto passato nelle mani della critica più anticonformista, si è trovato nelle file riservate ad una categoria nata al tempo, quella di un cinema della “degradazione”, condividendo lo spazio con un’altra opera dal potere perturbante come il pasoliniano Salò e le 120 giornate di Sodoma. Il clamore di pubblico ha reso La Grande Abbuffata una delle opere più celebri e tra le più discusse del regista milanese.

Si assiste ad una trama semplice, priva di intreccio, dove la narrazione è in verità una stasi. Si assiste, perché davvero non si può fare altro: lo spettatore è un paziente inerme di fronte ai quattro personaggi protagonisti: Philippe Noiret, Michel Piccoli, Ugo Tognazzi e Marcello Mastroianni. Uomini oltre la mezza età, borghesi, amici fra di loro, decidono di abbandonare le rispettive vite per isolarsi in una villa, portando a termine un piano suicidario “sui generis” – almeno se si pensa al suicidio (alla morte) come convenzionalmente ammantato dal pericolo cupo del dolore – il piano di approdare alla fine attraverso il cibo, che meticolosamente si somministrano in eccesso, oltre la fame.

Passano così per un processo di “purgazione dai peccati” rovesciato dove purga non è riduzione, sottrazione e quindi alleggerimento ma addizione e dunque eccedenza; una materializzazione di sé stessa per il suo contrario. Ma non è certo il suicidio atipico il punto problematico e interessante della pellicola, piuttosto ciò che da esso sortisce e va ad investire sia il piano del significato che quello della forma: è la continua dialettica tra un pieno e un vuoto, una dialettica che in realtà non si esaurisce mai, non è mai risolutiva e non approda a nessuna sintesi nemmeno attraverso la morte – protagonista vera di tutta la pellicola, allusione continua. Se il vuoto è il vuoto della morte, per una perversione del senso questo vuoto è raggiunto attraverso il suo riempimento (in questo caso è riempimento del corpo) come una ferita al contrario: una ferita che non può stillare sangue e il sangue che viene sostituito da altro materiale corporeo – le feci – e così deriso e degradato.

Ciò è quel che accade sul piano del significato, ad un livello profondo dell’opera ma non solo. Il punto di congiunzione tra questi opposti, tra queste categorie assolute si avverte in particolari segni, nelle particolarità delle scelte “di scena”; quelle operate sul cibo, per esempio, sono un surplus di pienezza che convive col suo vuoto in questo rapporto ormai indissolubile: le portate sono “travestite”, sono tutte decorative e non servono più per questo alla nutrizione. Viene alla mente La Cucina di Elle di barthesiana memoria, dove questa è «una pura cucina della vista». Abbondanza (pienezza) sommata all’aspetto esteriore – il vuoto dell’ornamento – che ne impedisce il senso primo, lo sfamarsi. Il contenuto – che sia cibo o che sia la verità umana dei personaggi – rimane sempre sclerotizzato nelle sue forme, dentro il proprio involucro.

Come si diceva, la questione si riversa anche sul piano stilistico-formale, sullo specifico filmico. Qui la macchina da presa – quasi perché si vuole motivare la sensazione di sciatteria delle immagini del cinema di Ferreri – sembra davvero farsi fautrice di questo vuoto; segue i personaggi nella loro clausura e lo sguardo sembra essere quello indifferente di un morto ma allo stesso tempo vigile e voyeuristico. È il finale soprattutto a illuminare la questione, a farla apparire con più vivezza: l’ultima inquadratura si ferma sulla villa-sepolcro con il suo giardino dove sono stati appena scaricati i quarti di bue per l’ennesimo banchetto che questa volta non avverrà più (sono morti tutti, l’unica superstite è la donna – concubina, madre, Caronte fedele ai suoi cadaveri e mai bizzoso); I tocchi di carne sono lasciati su questo sfondo veramente fuori contesto e completamente fuori fuoco.

Quel che sorprende è nella scena una atrofia del senso, incapace com’è di dare alcuna referenza (l’idea sporca di una carneficina, il suicidio di massa). Per tutto il film si attende la morte ma la morte alla fine sembra essere in ritardo e ogni soluzione rimane sospesa, non spiegata, straniata. Allora si ha la sensazione di essere di fronte ad una beffa: è lo scacco del comico sul tragico, che per tutto il film è aleggiato in un clima più caldo da commedia, per esplodere nella “immagine distratta” del finale, nella distrazione delle carni così messe. Un comico che è in verità disturbo oculare. È un’epifania abbacinante: Ferreri – quanto consapevolmente non si può dire – rivela attraverso il mezzo cinematografico tutta l’inadeguatezza del linguaggio, ed è l’inadeguatezza del linguaggio immagine del cinema; riesce a restituire – in questo finale inconcluso – all’intera vicenda il suo farsi quasi da sé, autonomo dalla macchina della cinepresa. Il nulla-pieno che si organizzano a vivere i personaggi, inserito nella cornice del vuoto-immagine.

Il punto di sutura di questo dualismo, di questo contrasto insanabile sembra essere suggerito da una lente critica inattesa ma profondissima, che smaschera anche il gioco di nascondimenti del comico e del tragico e lo spiega: il pezzo posto ad incipit, scritto dal drammaturgo e teorico del teatro, Antonin Artaud, tratto dall’opera radiofonica Per farla finita col giudizio di Dio, scopre davvero le carte: la morte è comica là dove emerge la bestialità della sua forma vuota, del suo involucro, della noncuranza, della potenza imperturbabile dell’immagine. Bestialità – come la scena dell’esplosione di escrementi dal gabinetto rotto – è indifferenza che non si afferra. Bandita la scatologia lo spettatore è intronato dalla consapevolezza di andare di corpo. Il comico senza consolazione della risata è comico che digrigna.
