di Andrea Lilli –
Il settantenne Gabriel Axel (Copenhagen 1918-2014) girò il suo capolavoro, premio Oscar 1988 al miglior film straniero, dopo aver realizzato numerosi titoli commerciali – perlopiù commedie leggere e soft porno – e in seguito ad un lungo periodo di inattività, tra il 1977 e il 1987, in cui si era limitato a qualche lavoro per la televisione francese. Vista pure la filmografia successiva, si suppone che in quei dieci anni di assenza dal grande schermo il regista danese abbia vissuto una profonda metamorfosi artistica, per cui registriamo un Axel pre- e uno post-Babette, ben distinti tra loro. Comunque sia, questo è un gioiello unico nella sua filmografia, certamente il più pregiato.

È un celebre film sull’arte della cucina, tratto dall’omonimo racconto di Karen Blixen, già ispiratrice del pluripremiato La mia Africa (Pollack 1985), che Axel traduce e un po’ tradisce sulla pellicola. Anzitutto cambia l’ambientazione. Blixen colloca la vicenda in un angolo di fiordo norvegese, Axel invece – ristabilitosi in Danimarca dopo tanti anni in Francia – sceglie i piatti orizzonti del patrio Jutland. Ma è specialmente nel finale che il regista si stacca dalla scrittura originale e si allontana dal movente del racconto, come vedremo.
La trama è nota. Anno 1871: Babette Hersant (Stéphane Audran), cuoca eccellente e convinta rivoluzionaria, sfuggita per poco al massacro che stronca la breve esperienza socialista e libertaria della Comune di Parigi, traversa il Mare del Nord e trova rifugio in un villaggio di pescatori. Poche case, gente semplice e in parte povera, assistita e guidata spiritualmente da due sorelle, Martina e Filippa, figlie di un pastore protestante che per tutta la sua vita le aveva costrette a seguire il suo credo. Fondata una congrega, il padre decano le battezzò ispirandosi ai nomi venerabili di Martin Lutero e Filippo Melantone, le blindò in casa al servizio dei bisognosi e suo, spingendole verso il nubilato, insomma impose loro un destino di pie devote, garantendosi una vecchiaia non solitaria.

Come ospiti pieni di premure
Con delicata attenzione
Per non disturbare“
Da giovani, Martina e Filippa erano splendide. La loro bellezza era ‘simile a quella degli alberi da frutto, quando sono in fiore’. I giovanotti le seguivano in chiesa per ammirarle e per ascoltare il canto di Filippa, dotata di una voce eccezionale. Ma quando qualcuno osava bussare alla loro porta e presentarsi al padre per avanzar richieste, il decano mortificava ogni fantasia rivendicando il proprio dominio: “Nella mia vocazione, queste figlie sono la mia mano destra e la mia mano sinistra. Vorreste forse privarmene?“, e congedava il pretendente di turno, tornando a serrare le mani egoiste su quelle delle due ragazze, prigioniere del loro profeta.

L’ombra della mia identità“
Tuttavia, due gentiluomini di passaggio erano riusciti a varcare la soglia di casa e, pur bloccati come gli altri dalla tirannia paterna, prima di sparire si erano spinti al punto di dichiarare i propri desideri, posando perfino un rispettoso bacio: l’ufficiale ussaro Lorens Löwenhielm sul dorso della mano di Martina; e il famoso baritono parigino Achille Papin sulla fronte di Filippa, estasiato da tanto talento lirico naturale. Entrambi avevano imparato che il destino è duro e crudele, talvolta, che a questo mondo non tutto si può ottenere, ci sono cose impossibili.
Più tardi si rifaranno vivi, del resto mai dimenticati dalle due donne. Achille con una lettera dopo 15 anni, per chiedere alle sorelle di dare asilo alla profuga Babette; Lorens di persona dopo 30 anni, per partecipare al pranzo celebrativo che sta al centro della storia. Un banchetto francese, nel centesimo anniversario della nascita del santo padre, offerto da Babette alle sorelle e ai pochi fedeli della loro comunità grazie ad una provvidenziale vincita alla lotteria.


Il titolo originale, Babettes gæstebud, descrive qualcosa di più largo di un semplice pranzo. Bud significa offerta, dono. Ed è indimenticabile il regalo che offre ai suoi ospiti (gæste) Babette, ora domestica tuttofare di Martina e Filippa, un tempo chef del Cafè Anglais, grazie ai suoi menu diventato il miglior ristorante di Parigi. Non è solo un banchetto ricco di portate e vini raffinati. È la condivisione di un’esperienza di piacere, del corpo e insieme dello spirito, di altissimo livello: un’armonia, una felicità che i palati dei suoi ospiti assuefatti al porridge e al pesce essiccato non avevano mai provato prima, né potevano lontanamente immaginare, abituati a pensare al cibo come mero mezzo di sostentamento.

I desideri non invecchiano quasi mai con l’età“
Lorens, nel frattempo diventato generale, è il solo a comprendere la qualità e il valore del cibo e dei vini miracolosamente arrivati su quella tavola, avendone già goduto a Parigi, al Cafè Anglais, in un pranzo offerto dal generale Galliffet, lo stesso che fece fucilare il marito e il figlio di Babette, che ordinò all’esercito di annegare nel sangue gli entusiasmi della Comune. Lorens è l’unico dei dodici (guarda caso) commensali dell’ultima cena in onore del decano a capire l’arte della cucina di quella sera magica, e non potendo sospettare la presenza di Babette ne assegna tutto il merito alle due sorelle, in particolare a Martina, che in tutti quegli anni è sempre rimasta nel suo cuore.
Così, come tanti anni prima, Lorens si congeda da Martina prendendole la mano, e sospinto dai sapori inebrianti di quel pasto, tanto stupefacente da persuaderlo di come ‘qualsiasi cosa a questo mondo sia possibile’, le dichiara il suo amore passato, presente e futuro: un amore assoluto, benché platonico. E nella convinzione di avere sollevato da un gran peso Martina e se stesso, se ne va. Per la seconda volta.

L’avrete fra le mani ma si sa
Un giorno come sabbia sfuggirà”
Partito Lorens, tornati a casa propria felici e riconciliati tra loro gli altri ospiti, le due sorelle vanno in cucina per ringraziare Babette, sfinita, convinte che ormai stia per ritornare a Parigi. Lei le informa che invece resta, per due motivi. Il primo: non c’è più nessun amico, nessun nemico che conosca a Parigi. Il secondo: non ha più soldi, avendo speso per il banchetto l’intero premio della lotteria. Le due sorelle restano basite: Babette non doveva dare via tutto ciò che aveva per loro, restando povera. Ed è in questo momento, che Gabriel Axel si distacca dal testo di Karen Blixen.
Nel racconto originale Babette prosegue, chiarisce e rivendica sia la sua dimensione di vera artista del gusto che quella di rivoluzionaria, “Grazie a Dio sono stata comunarda, grazie a Dio ho sparato sulle barricate contro chi si accaniva sul popolo“, orgogliosa di aver lottato per un ideale di verità e giustizia. Invece nel film la seconda identità, quella politica, viene cancellata. Eppure è indivisibile, saldamente complementare alla prima: solo considerandole insieme si può capire perché Babette non si rifiutasse con la sua arte di servire uomini malvagi come Galliffet – l’assassino dei suoi affetti – e gli altri nemici, clienti del Cafè Anglais. Quella gentaglia le apparteneva, era in mano sua, perché lei poteva renderla perfettamente felice quando faceva del suo meglio. Solo così poteva vincere, avere Galliffet e Lorens e chiunque ai suoi piedi. Senza più affetti e senza nemici, Parigi non ha più senso per Babette. E comunque non è povera: “Un artista non è mai povero. Ha qualcosa di cui gli altri non sanno nulla“. Un artista ha solo questa necessità vitale, di esercitare la propria arte meglio che può.
Nel film di Axel, invece, negata la dimensione politica, non resta che l’abbraccio con Filippa, unita a Babette dal comune destino, a questo punto, di dover aspettare l’ingresso in Paradiso per incantare gli angeli, per “fare il meglio che può un artista” del canto o della gola. E il focus della storia a questo punto ruota intorno ad un altro concetto, quello della Grazia divina: Babette agirebbe non più secondo libero arbitrio e in conseguenza dei torti subiti, ma come strumento del Signore: Dio consente e sostiene le Arti per sua maggior gloria, come dice Achille Papin al decano puritano al fine di ottenere il permesso di dare lezioni di canto a Filippa. Da un racconto intriso di ironia antistituzionale, esce così un film comodo alla Chiesa cattolica, anche perché qui non direttamente coinvolta: e sul vestito di Babette – presunta papista, essendo parigina – compare una collana col crocifisso.
Una piccola modifica di sceneggiatura con cui Il pranzo di Babette, scritto da una donna evidentemente critica verso certe storture di una società patriarcale e bigotta, ostile al conformismo spirituale, può diventare paradossalmente il primo titolo cinematografico ad essere citato e lodato in un documento ufficiale di un Papa: l’esortazione apostolica Amoris laetitia (Gioia dell’amore) firmata da Bergoglio nel 2016.

- il film doppiato in italiano è disponibile online qui
[le citazioni nelle didascalie sono estratte da canzoni di Franco Battiato, cui è dedicata questa pagina]
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