Sotto accusa, di Jonathan Kaplan (The Accused Usa/1988)

di Laura Pozzi

Fra i ritorni eccellenti (Leos Carax, Nanni Moretti, Spike Lee) previsti sulla Croisette del festival di Cannes, che quest’anno dopo il black out pandemico di dodici mesi fa, si terrà nell’inedita versione estiva dal 6 al 17 luglio, quello di Jodie Foster si colloca tra i più attesi e significativi. Quarantacinque anni dopo il trionfo di Taxi driver la piccola e perduta Iris torna come ospite d’onore a calcare il tappeto rosso del Palais des festivals, pronta ad accogliere la Palma d’oro alla carriera. Tra le attrici più eclettiche e riservate che Hollywood possa vantare, dotata di un talento e un quoziente intellettivo fuori dal comune, la sua indomita personalità l’ha portata spesso a vestire ruoli scomodi e complessi, difficili da metabolizzare. E’ il caso di Sotto accusa pellicola emblematica che nonostante il passare degli anni resta purtroppo drammaticamente attuale.  Girato nel 1988 da Jonathan Kaplan, la storia ispirata ad un fatto realmente accaduto vede protagonista una giovane donna vittima di uno stupro di gruppo all’interno di un locale notturno sotto gli occhi divertiti ed eccitati di ripugnanti spettatori. Per questo ruolo difficile e psicologicamente articolato la Foster, già nominata come non protagonista per il capolavoro di Scorsese conquisterà il suo primo Oscar (il secondo arriverà quattro anni dopo per Il silenzio degli innocenti) battendo un formidabile quartetto d’attrici. Glenn Close, Melanie Griffith, Sigourney Weaver e Meryl Streep restano a bocca asciutta, ma non possono nulla, devono momentaneamente accantonare il loro sogno di gloria che per le prime tre resta ancora un lontano miraggio.

 Sarah Tobias (Jodie Foster) è una cameriera di provincia che vive in una specie di baracca insieme all’inaffidabile Larry. Ragazza instabile, spigolosa e apparentemete sfrontata, una sera dopo l’ennesimo litigio con il suo amante si reca al The Mill bar. Un paio di birre, uno spinello, qualche chiacchiera divertita con l’amica Sally e un ammiccamento fatale la conducono in una spirale di inaudita violenza. La voglia di divertirsi, provocare, evadere, di concedersi una pausa da una realtà squallida e anaffettiva si tramuta nel peggior incubo vissuto da una donna. La violenza cieca e incontrastata prende improvvisamente forma all’interno di una sala giochi, esplode incontrollata sul corpo minuto di una donna indifesa e immobilizzata su un flipper, mentre un gruppo di spettatori esaltati, crogiolati nell’orrore di uno show brutale e disumano incitano i pretendenti a continuare. Dopo una drammatica fuga, viene soccorsa in strada da un’automobilista e portata in ospedale, in attesa di processo. Il caso viene assegnato alla rigida e glaciale, Katryn Murphy (Kelly McGillis), che sulle prime guarda con distacco quella ragazza dal carattere “marcio” e dalla condotta discutibile, ma che poi dopo l’ennesimo episodio di violenza verbale subito, finisce per ricredersi. Dopo un patteggiamento di comodo tra accusa e difesa in cui i tre stupratori vengono incarcerati non per stupro, ma per lesioni colpose (la pena varia da nove mesi a cinque anni) Kathyrin deciderà di incriminare gli incitatori, non meno colpevoli degli esecutori materiali.

La causa assume i contorni di una missione impossibile, Sarah viene additata come una ragazza facile, superficiale, adescatrice, insomma una che “se l’è andata a cercare”. A dare una svolta inaspettata ci pensa Ken, uno studente presente sulla scena del crimine. La sua lucida e dettagliata testimonianza contribuirà in modo decisivo a ribaltare un verdetto quasi scontato.  Kaplan costruisce un legal drama asciutto ed essenziale, avvolto da un realismo crudo e ostinato, funestato da pregiudizio e ipocrisia. Violenza, stupro, discriminazione, sospetto, i capi d’accusa sono molteplici e tutti perfettamente tangibili. Come spesso accade nel fatti di cronaca che vedono costantemente la donna al centro di orrori, Sarah è una vittima che nonostante l’abuso subito deve continuare a difendersi. Non basta l’evidenza del fatto per infliggere una pena esemplare, il subdolo serpeggiare di condotte ambigue da parte di donne libere che vogliono vivere ed esprimere al massimo la propria femminilità sono spesso considerate ridicole attenuanti o peggio ancora bieche giustificazioni.

E’ sconvolgente come a distanza di più di trent’anni questo film ci consegni una fotografia nitida e priva di sbavature sul nostro presente. L’assoluta efficacia della storia consiste proprio nel presentarci una protagonista con la quale non è sempre facile empatizzare, sulla quale incombe un pregiudizio persistente. Sarah non eccelle negli studi, non ha una brillante carriera davanti a se o un solido rapporto su cui contare. Il microcosmo in cui vive è aspro e inospitale, il suo rapportarsi agli altri è frivolo, inconsistente, basato sull’apparenza, la sua conoscenza del mondo passa attraverso un segno zodiacale.  Il vuoto affettivo che l’attanaglia è ben rappresentato nella scena in cui ferita e lacerata chiama una madre insensibile e distratta che le riserva un’accoglienza gelida, tanto da farla desistere dal confessare l’accaduto. La putrida realtà che la circonda è ben sintetizzata in quell’incipit horror dove una donna in preda al terrore esce seminuda e sanguinante da quell’angusto locale sorto sotto un cavalcavia che un fotogramma iniziale ha cercato di cristallizzare nel suo tacito orrore. Tuttavia il tribunale, secondo luogo dove si svolge gran parte dell’azione e dove verrà ricostruita nelle sua interezza la violenza esercitata non appare meno spettrale

Kaplan ci restituisce una riproduzione dei fatti atroce e minuziosa dove ogni singolo dettaglio incide come un fendente. Sarah arriva in quel locale priva di sovrastrutture, è terribilmente sexy e con quella sigaretta fra le labbra gioca pericolosamente a fare la dark lady. Nel tentativo di smarcarsi dal ruolo di “ultima” si lancia in una danza erotica e invitante che agli occhi degli altri si trasforma in un agghiacciante lasciapassare. Inutili i disperati tentativi di opporsi come gli strazianti no urlati a squarciagola. Una scena durissima, ma necessaria nel comprendere le dinamiche di un abominio ancora troppo presente e “giustificato”. La Foster offre un’interpretazione memorabile e dà vita insieme a Kelly McGillis ad una delle complicità femminili più intense e sorprendenti mai viste sullo schermo.    

 

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