Barton Fink – È successo a Hollywood, di Joel Coen (Usa/1991)

di Laura Pozzi

Per ogni appassionato di cinema, il mese di maggio conduce spesso a (ri)vivere le fastose atmosfere del Festival di Cannes. E a questo proposito fra le Palme d’oro più sorprendenti e originali assegnate negli ultimi trent’anni spicca quella consegnata da Roman Polanski nel 1991 a Joel e Ethan Coen per Barton Fink – è successo a Hollywood. Un tripudio e una vera consacrazione per i travolgenti e già molto apprezzati fratellini statunitensi, che con assoluta nonchalance avranno la meglio sul grande favorito Krzysztof  Kieslowski per La doppia vita di Veronica e porteranno a casa altri due premi prestigiosi: quello per la regia a Joel e quello per il miglior interprete a John Turturro. Un pronostico apparentemente inaspettato, ma nemmeno tanto se si pensa all’anno prima quando il nostro Bernardo Bertolucci a capo della giuria decise di premiare il palpitante Cuore selvaggio di David Lynch. Un copione iperbolico che continuerà a riproporsi trovando il suo apice quattro anni più tardi con la vittoria dell’epocale Pulp fiction fortemente voluta da Clint Eastwood ancora una volta a scapito del regista polacco e del suo meraviglioso Film-Rosso. Polanski punta tutto sui Coen, si trova a suo agio con il loro cinema e non è difficile capire perchè, visti i non troppo velati riferimenti a Repulsion, Cul-de-sac e L’inquilino del terzo piano, ma anche il resto della giuria, comprendente fra gli altri Alan Parker, Vittorio Storaro e il compianto Vangelis, coglie al volo l’occasione di  premiare un film inquietante e bellissimo, ma paradossalmente tra i meno celebrati della loro produzione artistica.

L’idea nasce durante la lavorazione del travagliatissimo Crocevia della morte (con il quale condivide più di qualche affinità) e viene forgiato sul corpo nervoso di John Turturro, all’epoca attore non particolarmente noto, ma già interprete per Martin Scorsese, Spike Lee e gli stessi Coen. Modello di riferimento è Clifford Odets, drammaturgo “impegnato”, fondatore del Group Theatre, anche lui “emigrato” da Broadway a Hollywood.  Turturro legge avidamente il suo diario, divenendo protagonista di una storia distorta e allucinata, che gronda sangue (facile), sudore e si addentra nei labirintici e kubrickiani corridoi di un hotel dove uno scrittore adulato, ma di dubbio talento passa da New York a Hollywood, dal teatro al cinema, con la forza d’urto di un’onda che si infrange su uno scoglio e si imbatte nel temutissimo blocco dello scrittore. Siamo nel 1941, Pearl Harbor bussa alla porta degli States destabilizzando la supponenza di un uomo volutamente incapace di ascoltare ed empatizzare con il prossimo, ma fortemente determinato attraverso le sue opere ad elevarsi paladino dell’uomo comune. Peccato che nella mecca dorata di Hollywood, uno sceneggiatore vale l’altro e ci sia poco spazio per signorili aspirazioni e nobili sentimenti. Fink viene arruolato nella Capitol Pictures e messo sotto contratto per la sceneggiatura di un film sul wrestling con protagonista il famoso attore Wallace Beery.

Un mondo del tutto sconosciuto per l’occhialuto drammaturgo, rinchiuso nella solitudine e frustrazione di un’angosciante e fatiscente stanza d’albergo, molestata da zanzare e da strani rumori provenienti da un corridoio deserto pieno di scarpe lasciate fuori dalla porta. In realtà i rumori provengono dalla stanza accanto, dove vive il vulcanico Charlie Meadows ( un incontenibile e strepitoso John Goodman) un assicuratore spesso in viaggio con il quale Barton entra immediatamente in sintonia. Tuttavia la mancanza d’idee comincia a farsi sentire, così come quel caldo opprimente che contribuisce e scollare la tappezzeria dalle pareti. Unica via di fuga  appare un piccolo quadro, dove una ragazza seduta di spalle in riva al mare scruta l’orizzonte. Per Barton fissarlo ripetutamente rappresenta la sola ancora di salvezza al quale volgere uno sguardo costantemente in stato di alterazione. Sempre più abbattuto, segue il suggerimento del produttore Ben Geisler, e si reca dal suo idolo, lo scrittore Philip Mayhew in cerca di consigli, ma ad accoglierlo trova la sua segretaria e compagna Audrey Taylor (Judy Davis) che lo invita a rimandare l’appuntamento. La situazione diventa sempre più fumosa e imprevedibile e dopo una notte d’amore passata con la donna, si risveglia al mattino con vicino il suo cadavere immerso in una pozza di sangue.

Venuto a conoscenza dell’accaduto, Charlie si ritaglia il ruolo di “risolutore” e lascia in custodia a Fink un misteriosa scatola da sorvegliare fino al suo ritorno, mentre la sceneggiatura comincia a prendere forma nella sua mente, materializzandosi sopra un foglio di carta. In realtà Charlie non è esattamente l’amicone che sembra e dopo un infuocato confronto finale a due, il giallo sembra trovare spiegazione, la sceneggiatura trovare compimento, così come la successiva stroncatura da parte dei “capi”. Barton resta comunque sotto contratto, ma si trasforma da uomo che (forse) c’era, a uomo che non c’è più. La sua “scollata” esistenza può continuare a sopravvivere esclusivamente all’interno dell’unica immagine fruibile, ovvero sulla spiaggia in compagnia della misteriosa ragazza del quadro alla quale domanda se lavora nel cinema. La risposta non la sveliamo, ma la dice lunga sulla lungimiranza dei fratelli. “Ci è sempre piaciuto mettere la storia dentro una cornice, creare una certa distanza che ci allontana dalla realtà”. Rivisto a distanza di tempo, Barton Fink assume i contorni di un profetico e geniale antidoto cinematografico verso un mondo al quale i Coen sembrano destinati. A differenza del convulso protagonista, i due giocano d’anticipo, evitando qualsiasi scappatoia che li imprigioni dentro un involucro vuoto o in una misteriosa scatola dal contenuto indefinito. Indefinito per chi guarda, perché loro sanno benissimo come destabilizzare Barton e lo spettatore attraverso un vuoto e uno stallo narrativo che non è solo del protagonista.

I Coen sfidano continuamente la nostra percezione, le visioni, le dissociazioni mentali di Fink diventano di colpo anche le nostre. Improvvisamente cominciamo a sentirci sudaticci e sempre meno lucidi, la famigerata scatola probabilmente è stata aperta, ma i Coen si guardano bene dal confessarlo. Preferiscono illuderci continuamente, attraverso la pacatezza e trasparenza della ragazza del quadro, che alla fine mostrerà una pungente e amara lucidità. Sorretto da suggestioni lynchane (ma sarà lo stesso Lynch a ricambiare il favore  con la famosa scatola blu in Mulholland Drive) Barton Fink, risulta ancora oggi una dirompente e affascinante esperienza visiva/sonora all’interno di una stanza/ mente “pericolante”. “Ti voglio mostrare la vita della mente”, grida un mefistofelico John Goodman all’indirizzo di John Turturro. E mentre tutto si riduce ad un cumulo di macerie i Coen, a differenza di Fink, aprono la scatola, raccolgono il suggerimento di un pazzo criminale e ci  consegnano una delle opere più ispirate ed enigmatiche della loro preziosa filmografia.

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