di Marzia Procopio
Dolor y gloria (2019), di P. Almodovar con A. Banderas e P. Cruz.
È stato un ritorno felice quello di P. Almodovar al cinema, perché in questo film c’è in primo luogo tanto colore, tantissimo: dalla scenografia alla fotografia, una gioia vedere l’arancione col turchese, il verde con l’azzurro, il rosso e il viola. Si percepisce, fin dai titoli di testa, che ci saranno tanto colore, appunto, e tanta vita: le animazioni ricordano i colori-corpo di Van Gogh, i nomi dei lavoratori del cinema, mi piace chiamarli così, impressi su rettangoli bianchi come i muri o come i teloni bianchi delle proiezioni di piazza o casalinghe.
È un film sul cinema e sull’amore. Salvador – un Banderas commovente per l’intensità della sua interpretazione- è un regista depresso e malato che vive a Madrid e ci porta nella sua vita andando avanti e indietro fra passato e presente: il restauro della pellicola di un suo famosissimo film gli permette di fare i conti con il suo passato guardando ad esso con commozione e benevolenza. Salvador naturalmente è Almodovar, ne ha l’età e i malanni fisici e psichici: dolori fisici, concreti, e dolori psichici, rappresentati dalle animazioni colorate all’inizio del film. Racconta di sé in prima persona e lo fa con delicatezza e ironia – quando ho molti dolori credo in Dio e prego, quando ne ho uno solo sono ateo.
Il regista ne ama le fragilità che lo avvicinano alla droga ma anche la generosità con cui concede un suo testo – ‘La dipendenza’ – a un vecchio amico attore, e la saggezza con cui congeda il suo grande amore che non vede da trent’anni.
Un magnifico personaggio, Salvador, perché è un depresso dolcissimo e la sua presenza sulla scena non è mai drammatica; non si teme mai, mentre si guarda la sua vita, che si faccia del male o che accadrà di lì a poco qualcosa di tragico: c’è levità in lui, c’è una malinconia di fondo che passa per la naturale accettazione del mistero impenetrabile dell’esistenza. Così, lo vediamo rivangare la sua storia d’amore e lo spettatore è lì a sperare che con l’inaspettato ritorno di Federico riprenda a vivere anche l’amore che ha messo da parte da tanti anni.
E invece Salvador lo congeda; ma non c’è tristezza, perché nei dieci minuti in cui ripercorrono le tappe del loro amore entrambi hanno gli occhi commossi di chi si è molto amato e che perciò si amerà per sempre, ma sa anche che quello è il passato, così la scena può essere malinconica e allegra insieme, colorata di pianto e delle mattonelle azzurre della cucina rossa. Saluta la madre malata – una Penelope Cruz dura e amorevole, “Santa cattolica e apostolica” come la Spagna che Almodovar ha contribuito con il suo cinema ad ammorbidire un po’ – e le dice con naturalezza quel “So di averti delusa” e lei non prova nemmeno a negare, con una cattiveria rara che lui le perdona e lo induce a prometterle che la porterà a morire al paese, perché lei è la donna della sua vita e lui è rimasto quel bambino ubbidiente che faceva e fa ancora tutto ciò che lei desiderava.
Per puro caso ritrova un ritratto di sé bambino, ed è l’occasione per un nuovo flashback in cui si rivede il piccolo Salvador dinanzi al suo primo turbamento sessuale; e la gioia di quel ricordo, assieme all’allegria per lo scampato pericolo di un tumore inesistente, sono la spinta per un nuovo film: l’ultima scena ci riporta all’inizio del film, in una struttura ad anello che è insieme punto di arrivo e di partenza, perché non sai se quello che hai visto fino a quel momento è già il film nel film o solo la vita che poi diventerà il film: un altro sdoppiamento di piani, un’altra mise en abyme, un altro gioco degli specchi da cui lo spettatore esce incantato per i doni che Salvador, con i suoi commenti profondi e dolci, continuamente e generosamente gli dispensa.
Almodovar ama molto i suoi personaggi: non solo Federico e la madre, ma anche l’attore ex amico ritrovato che gli porta in scena ‘La dipendenza’ e lo rimette in contatto con Federico; l’amica manager Mercedes, che lo cura e lo protegge dalle malattie e da se stesso; il giovane pittore della sua infanzia primo oggetto di turbamento – el primero deseo: e la fermezza delicata con cui Salvador bambino guida la mano di questo ragazzo analfabeta per insegnargli a scrivere è il mestiere sicuro e l’occhio tenero con cui Almodovar ci invita a guardare la sua vita scombinata, ricca e contraddittoria come tutte le vite umane. Dolore e gloria, dolore e saggezza: dalla Spagna di Almodovar alla Grecia di Eschilo e del suo pathei mathos, l’unica strada per crescere e vivere in profondità sembra essere, per l’uomo, sempre e comunque la sofferenza.
Dopo aver letto la tua bella recensione, non lo perderò. Farò di tutto per riuscire a recuperare le mie forze e andare al cinema, sarà il secondo film che vedo dopo mesi e mesi di “astinenza” (per cause di forza maggiore…).
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Difficile intrecciare tragedia e sorriso, pesanti dolori e colori pieni di vita. Dalle tue parole si desume che Almodovar ce l’abbia fatta, un’altra delle sue magie, a quanto pare piu’ profonda e pure piu’ lieve delle precedenti, pescando a piene mani dalla sua vita reale. Metto il film in lista d’attesa con precedenza.
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