di Girolamo Di Noto
” Poco valore ha tutto ciò che ha un prezzo”.
(F. Nietzsche)
Un affare di famiglia (Giappone, 2018 ), di regia di H. Kore-eda.
Alla base del film di Kore-eda, Un affare di famiglia, Palma d’oro a Cannes 2018, sta la convinzione che la vera famiglia sia formata da persone che scelgono ogni giorno di appartenersi e di proteggersi. In tal senso il regista giapponese si sofferma non tanto su una concezione biologica della famiglia, sull’aspetto naturale, ma su quello sociale, sull’importanza dello stare insieme al di là di ogni vincolo di sangue. La famiglia di appartenenza dovrebbe essere quella umana, ovvero formata da persone che scelgono ogni giorno di volersi bene, di prendersi cura l’uno dell’altro.
È quello che accade ai personaggi di questo intenso e delicato film: in un umile appartamento convivono una coppia, formata da Osamu, un muratore che lavora a giornata e da Nobuyo, stiratrice in una lavanderia, una nonna, figura attorno alla quale ruoterà gran parte della storia, Aki, una ragazza che si esibisce in un peep-shop e Shota, un bambino che vive di espedienti rubacchiando qua e là nei supermercati per contribuire alla sopravvivenza della famiglia. Dopo uno dei loro furti, Osamu e Shota si imbattono in una bambina abbandonata per strada e decidono di portarla presso la loro piccola abitazione.
Nonostante la povertà e la mancanza di legami di sangue, la piccola ritrova la felicità nel suo nuovo nucleo familiare fino a quando un imprevisto non sconvolgerà l’apparente equilibrio ritrovato.
Film di straordinaria intensità emotiva, delicato e nello stesso tempo duro nel raccontare storie di emarginati, bambini abbandonati a sé stessi, genitori manchevoli, poco responsabili che usano il denaro per lavarsi la coscienza o per offrire falso affetto. Nessuno è quello che sembra essere all’inizio del film: c’è chi si lascia condizionare dal denaro, chi dall’infelicità della propria solitudine, ma anche dalla voglia matta di accogliere l’altro, dal desiderio di elargire sorrisi, affetti genuini e allegria nonostante alla base campeggi un’infelicità di fondo.
Il regista guarda con tenerezza i suoi personaggi, non tende a giudicarli negativamente neanche quando commettono degli errori; è invece spietato nei confronti di chi nel film non si vede. Un giudizio negativo che non è espresso in facili e affrettate prese di posizione, ma come spesso accade nel cinema dell’Oriente, in domande che racchiudono riflessioni e insinuano dubbi.
Quale meccanismo potrebbe attivarsi in un bambino che sa di non essere amato è di rappresentare un peso per i propri genitori? Che tipo di adulto potrà diventare? Come può considerarsi madre colei che ha partorito un figlio ma lo lascia poi nel degrado e nell’indifferenza più totali?
Film ricco di tanti altri spunti e riflessioni e per questo motivo da recuperare assolutamente, anche solo per quello sguardo meraviglioso di Rin nell’inquadratura finale che tanto ricorda quello di Antoine Doinel alla fine de ‘I 400 colpi’. Sguardi sfrontati, fragili o smarriti di un’infanzia rubata.
Bellissima recensione, io il film l’ho visto e come dici tu è pieno di mille sfumature, il regista ti impedisce di collocarti nel giusto o sbagliato, solo nel bene o nel male
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