di Luca Graziani
I morti non muoiono, l’apocalisse zombie raccontata da Jim Jarmush, apre la 72esima edizione del festival di Cannes con un pessimismo intrinseco che professa il rifiuto di una società del consumo umanamente poverissima.
A Centerville, una tranquilla cittadina dell’Ohio, il tempo scorre lentamente, nulla sembra poter turbare la giornata dei poliziotti di turno, Cliff e Ronnie (rispettivamente Bill Murray e Adam Driver) in missione per recuperare le galline di Steve Buscemi, americano provinciale stereotipato. I due, completamente assorbiti dalla loro piccola realtà locale, sono ignari di quanto stia accadendo, e sembrano restarlo per tutto il film.
E’ proprio questa l’anima dell’ultimo lungometraggio di Jim Jarmush: una situazione surreale che si converte in piena normalità. La rassegnazione e il fatalismo sono i sentimenti che pervadono i protagonisti e la realtà denunciata dal regista è quella di una società che non accenna a voler cambiare e che, anzi, vira in una direzione pericolosamente inquietante. Jarmush non ci gira troppo intorno e la morale non tarda ad arrivare: lo sfruttamento selvaggio delle risorse del pianeta ha modificato l’inclinazione dell’asse terrestre causando una misteriosa quanto repentina inversione del giorno e della notte. Questo è quanto detto alla radio di bordo dei due poliziotti. Il regista traccia già dai primi minuti una linea di demarcazione a dividere i suoi protagonisti dai morti viventi rianimati dal chiarore di una luna luminescente.
Nel cast di rilievo si distinguono il citato Steve Buscemi e Tilda Swinton, proprietaria delle pompe funebri con un’abilità nell’uso della katana degna di Kill Bill. Attrice già presente in“Solo gli amanti sopravvivono” dove il regista se la prende con l’immaginario che circonda la figura folkloristica del vampiro, altro soggetto tipico del genere horror. I personaggi affrontano il fenomeno zombie con prevedibilità, a volte anche con apatia: sembra tutto un gioco, uno scherzo, tutto già scritto e già detto. L’epilogo è chiaro fin dall’inizio e sono gli attori stessi a suggerircelo, continuamente, con una serie interminabile di “questa storia non andrà a finire bene”. Una frase pronunciata però senza il pathos dell’horror, quel presentimento inquietante che percorre come un brivido la schiena del protagonista. Qui non c’è tensione, non c’è paura, ma solo indolenza e rassegnazione non giustificate nemmeno dalla commedia. È necessario perciò guardare oltre per cogliere quanto Jarmush voglia davvero trasmettere al di là della morale che quasi spiattella all’inizio, quella dell’uomo che abusa del pianeta e viene punito dalla natura. Per un messaggio di questo tipo basterebbe vedere un Godzilla qualsiasi. Inevitabilmente c’è dell’altro.
A fornirci un indizio in tal senso sono i morti viventi bramosi di carne umana, ma soprattutto di ciò che in vita più desideravano e di cui erano totalmente dipendenti: la vecchia ubriacona della città reclama lo Chardonnay, i bambini i videogiochi, l’adolescente il vestitino alla moda… della persona, dell’individuo resta solo questo: cose, oggetti, tracce di esteriorità. Non c’è null’altro ad animare quei corpi che si aggirano barcollanti per le vie di Centerville, e forse non c’è mai stato. Sono questi segnali, in un film che non si può ridurre alla neo coscienza ecologica degli ultimi tempi, a salvare l’horror di Jarmush dall’abisso cinematografico del già visto.
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