American Beauty, di Sam Mendes (1999) – Rose americane… di plastica.

di Roberta Lamonica

“Mi serve un padre che mi faccia da modello, non un ragazzino arrapato che viene nelle mutande ogni volta che porto un’amica a casa da scuola. Che schifo! Qualcuno dovrebbe aiutarlo a smettere di soffrire”.

“Vuoi che l’uccida per te?”

“Sì. Lo faresti?”

(Thora Birch as Jane Burnham)

Nella primissima sequenza di ‘American Beauty’ (1999), opera prima e cult movie di Sam Mendes, vengono presentati tutti i temi del film: l’ossessione per la rappresentazione in presa diretta della realtà con la sua pretesa di verità e oggettività, l’adolescenza come periodo della vita in cui si prova disgusto e disapprovazione per il mondo degli adulti, percepiti come falliti, pervertiti o al massimo irrisolti, la considerazione della morte (dell’eliminazione fisica di un altro essere umano, in realtà) come soluzione immediata e definitiva a un problema e la conseguente sostituzione al Creatore nel decidere il destino degli uomini; la noia, il disagio, la mancanza di colore.

Colore che progressivamente riempie lo schermo, azzurro e ancora freddo, nella sequenza successiva in cui Lester Burnham (un Kevin Spacey gigantesco), voce narrante e protagonista del film, presenta se stesso e ci introduce nella narrazione del suo ultimo anno di vita, anticipando la sua già avvenuta morte. Evidente l’omaggio a Sunset Boulevard (‘Viale del Tramonto’) nel racconto in prima persona da parte del protagonista morto, Joe Gillis (W. Holden), in un lungo flashback e al cinema di Billy Wilder in generale. Il personaggio di Lester Burnham è infatti ricalcato, per alcuni versi, sul personaggio di C.C. Baxter (Jack Lemmon) de ‘L’appartamento’.

La voce di Lester presenta la propria vita senza entusiasmi o ornamenti, usando il dimostrativo ‘This’ in una successione di proposizioni anaforiche (quasi di reminiscenza dantesca) che restringono e delimitano contestualmente all’inquadratura della macchina da presa la prospettiva, lo spazio dell’azione e la vita del protagonista.

Un uomo qualunque, Lester, con un pigiama a quadri di flanella, una sveglia, un abito grigio, una ventiquattrore, un lavoro monotono che gli succhia l’identità e ne lascia uno sbiadito riflesso sullo schermo di un computer, una moglie efficiente, una figlia (Thora Birch) come tante, una bella casa, una convenzionale ‘coppia di Jim’ di successo come vicini. Eppure… il momento più alto della sua giornata è quando si masturba tra i vapori opachi del suo box doccia. È l’unico momento in cui la forza generatrice della sua virilità trova spazio in un’esistenza coatta e soffocata. La condizione claustrofobica dell’esistenza di Lester è sostenuta dall’essere conscio di essere ‘sedato’, in una condizione di estraneità rispetto alle sue aspirazioni e aspettative, considerato uno ‘sfigato’ dalla moglie borghese, che guida l’automobile e per estensione la famiglia, maniaca del controllo e completamente isterica e da una figlia complessata ed insicura che fa fatica ad adattarsi.

Ma al netto di tutto i Burnham hanno (e sono) l’ ’American Beauty’, varietà di rosa rossa coltivata e recisa con perizia da Carolyn, ornamento esclusivo della famiglia Burnham e invidia dei vicini. Una rosa perfetta, elegante, fragrante, che troneggia altezzosa e fiera in ogni stanza di casa Burnham, simbolo del nucleo familiare saldo e senza macchia sdoganato dal Sogno Americano e che qui viene messo completamente in discussione.

Intanto davanti agli occhi trasparenti, seri e attenti di Rick (eccezionale Wes Bentley) -o meglio davanti alla sua telecamera- scorre tutta la vita dei Burnham, le loro incomprensioni, le loro solitudini, i ricordi di un progetto d’amore, la loro attuale infelicità.

Carolyn (Annette Bening) fa l’agente immobiliare e cerca di vendere il sogno americano ai suoi clienti: case borghesi come lei, che nascondono tante magagne come lei. Ma le coppie che si susseguono nelle visite alla casa ‘che oggi venderò assolutamente!’ sono coppie moderne, miste, nuove e a Carolyn non resta altro che sfogare la frustrazione e l’insuccesso dietro tende che lasciano il mondo vero fuori dalla cortina di apparenza che è la sua vita.

Ed è in questo contesto asfittico che arriva l’incontro tra Lester e Angela (Mena Suvari), compagna di scuola di Jane e Lolita sexy che trasforma un compassato e anonimo padre di famiglia in un Humbert Humbert dai ‘lombi infuocati’.

Questo incontro dà il via a una serie di momenti onirici durante i quali Lester rientra in contatto con la parte più istintiva di sé, quella dei desideri e della spinta vitale, che però inevitabilmente prende la forma di perversione e ossessione nei confronti di una ragazzina che potrebbe essere sua figlia. ‘On Broadway’, omaggio al teatro tanto caro a Sam Mendes, sparisce sul volto imbambolato e inebetito di Lester e l’American Beauty si disintegra in mille petali perché il desiderio non può essere ingabbiato nella forma della perfezione normativa e formale. Ecco perché non sorprende che Lester, ancora intontito dal desiderio, dica: “mi sento come se fossi stato in coma per vent’anni e mi fossi appena svegliato’.

E dall’incontro con la freschezza ammiccante di Angela e con il mistico distacco di Rick inizia la svolta di Lester che si licenzia, cura il proprio corpo, fuma spinelli e inizia a lavorare in un fast food, intenzionato a ‘riavvolgere il nastro’. E a cascata la sua svolta porta a quella di tutti gli altri personaggi del film: Carolyn inizia una relazione focosa con il suo competitor, che condivide la sua visione del mondo e che, come lei, vive di sole apparenze; Jane si lascia incuriosire da Rick -voyeur capace di scorgere la bellezza dove gli altri non la vedono- sentendo che è un outsider esattamente come lei; Angela inizia a perdere il suo ascendente su Jane e di conseguenza la sicurezza derivante dal controllo sull’amica.

A queste trasformazioni fa da contraltare l’immobilismo spaventoso della famiglia di Rick il cui padre, militare in carriera e gay represso, terrorizza moglie e figlio con regole militaresche e violente, collezionando armi e ceramiche del Terzo Reich. Feroce è la critica antimilitarista di Mendes. È al glorioso marine che il regista associa il fallimento più totale della società americana: incapace di amare, di amarsi, riduce la moglie (Allison Janney) a un puppet senza anima e il figlio Rick a un disadattato anaffettivo. Eppure Rick, alter ego di Lester, è l’unico nel film a rompere il velo dell’ipocrisia, a mettere il padre di fronte alla propria natura, a dare alla madre un’illusione escapistica di libertà, a inchiodare Angela alla propria ordinarietà e a mettere Jane di fronte al suo essere speciale.

E Lester? A Lester dà una nuova possibilità di essere uomo e padre e di farlo nel momento in cui maggiormente sembra poter aderire al modello ipocrita di common man americano, fa un passo avanti e… si comporta da uomo. Per questo la telecamera di Mendes chiude l’inquadratura su Lester e Angela lasciando progressivamente fuori le American Beauty in bella mostra nel vaso davanti a loro. La loro verità può emergere solo fuori dall’apparente perfezione del mondo che abitano e che li ha condizionati. E quando viene fuori, allora si può decidere anche di rifare le scelte di un tempo, di sedersi a un tavolo, vicino a quelle rose rosse e… morire.

Perché ci si può arrabbiare per le circostanze assurde in cui si muore ma “é dura arrabbiarsi quando c’è così tanta bellezza nel mondo”.

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