L’uomo che amava i libri: François Truffaut

di Marzia Procopio

Se la sua vita non fosse stata stroncata prematuramente da un tumore al cervello il 21 ottobre 1984, all’apice del successo e di una parabola creativa che ci ha lasciato capolavori come I 400 colpi (Les quatre cent coups, 1959) Jules et Jim (1962), Fahrenheit 451 (1966), Effetto notte (La Nuit américaine, 1973), L’uomo che amava le donne (L’Homme qui aimait les femmes, 1977), La camera verde (La Chambre verte, 1978) e moltissimi altri, per ultimo Finalmente domenica!, (Vivement dimanche!, 1983), il 6 febbraio François Truffaut avrebbe compiuto 90 anni.

Ventuno lungometraggi di diversi generi cinematografici in ventiquattro anni di carriera, il critico cinematografico, regista e produttore francese padre, con l’amico-nemico Jean-Luc Godard, del movimento noto come Nouvelle Vague, era nato il 6 febbraio 1932 a Parigi, nella zona di Place Pigalle, nelle note circostanze difficili che ne segneranno la vita e l’opera: figlio illegittimo della giovanissima Jeanine de Montferrand, che non lo abortì soltanto per l’opposizione della famiglia, il bambino venne dapprima affidato alle cure di una balia, poi mandato per alcuni anni in campagna dalla nonna, figura fondamentale che lo introdusse a una delle grandi passioni del futuro regista, quella per la lettura, che aprendogli la via d’accesso a storie, mondi e personaggi immaginari gli salvò letteralmente la vita permettendogli di volgere lo sguardo in alto, alla fantasia e all’immaginazione, per sfuggire al prosaico della realtà. Per questo motivo il suo rapporto con la letteratura – prima ancora che con il cinema – fu sempre basato sulla gratitudine, al punto che nei suoi film i libri riescono sempre a farsi “altare” della memoria letteraria, come scrive Denis Brotto nella prefazione a François Truffaut. La letteratura al cinema, una raccolta di saggi a lui dedicati che pongono in rilievo il ruolo fondamentale avuto dalla letteratura all’interno dell’opera di Truffaut, “con l’essere umano capace di divenire egli stesso libro pur di preservarne l’essenza”.

Dalla nonna il giovane Truffaut imparò a leggere, ma a tale passione non corrispose l’amore per lo studio e la scuola: frequentò il Lycée Rollin solo fino al 1941, e fallì l’esame di ammissione al sesto anno, dopo il quale iniziò una lunga peregrinazione da una scuola all’altra. Quelli furono gli anni della scoperta del cinema, l’amore della vita. Nel novembre 1933, Jeanine aveva sposato Roland Truffaut, un designer industriale che riconobbe il figlio come suo, pur non essendone il genitore biologico. Il rapporto difficile con i genitori e con le istituzioni gli fornì l’ispirazione per I 400 colpi (1959), lo studio semi-autobiografico di un potenziale, piccolo delinquente della classe operaia. È il primo della serie di Antoine Doinel, che traccia l’evoluzione del suo eroe da un’angoscia antisociale a una vita domestica felice e stabile. Con questo capolavoro, il cineasta parigino vinse il premio per la miglior regia al festival di Cannes del 1959, affermandosi come leader della Nouvelle Vague, che innovò profondamente e influenzò la generazione emergente di registi in tutto il mondo poiché segnava una reazione contro il sistema di produzione commerciale, il cosiddetto cinéma de papa. La nuova teoria estetica richiedeva che ogni dettaglio dello stile di un film riflettesse la sensibilità del regista così intimamente come lo stile in prosa di un romanziere ripercorre il funzionamento in profondità della sua mente – da qui il termine “le camera-stylo”, un concetto formulato già nel 1948 dal regista francese Alexandre Astruc, il quale aveva affermato che il regista doveva usare la macchina da presa come uno scrittore usa la penna. I diversi registi della nuova corrente – Truffaut, Godard, Rohmer – svilupperanno poi ciascuno in modo originale questa idea: Godard con uno stile più radicale e autarchico contro il cinema classico e i suoi modelli di finzione, Truffaut scegliendo un tono medio che mirava più ad accogliere l’eredità del cinema tradizionale. L’assunto di base della nuova teoria era la necessità di rimettere al centro del processo creativo il regista come autore a tutto campo, privilegiando l’aspetto visivo su quello letterario: l’elemento letterario, la sceneggiatura, era spesso usato come base, come un semplice tema per l’improvvisazione drammatica, anche perché era ormai possibile sfruttare la flessibilità visiva di apparecchiature di nuova concezione (ad esempio, la telecamera portatile) e tecniche (ad esempio, ampia post-sincronizzazione dei dialoghi). La minimizzazione dei costi incoraggiava i produttori a scommettere su talenti sconosciuti e la semplicità dei mezzi dava ai registi uno stretto controllo su ogni aspetto del processo creativo: di qui il termine “autore” usato da Truffaut, il quale però non smise mai di essere appassionato fruitore senza pregiudizi di letteratura e cinema. Truffaut leggeva per poi trasformare in immagini racconti, romanzi, epistolari e diari, oppure anche solo per ricrearne atmosfere e suggestioni nei suoi film, spesso caratterizzati dalla presenza di scrittori, bibliofili, grafomani fino ad arrivare agli uomini-libro di Fahrenheit 451. Per lui, infatti, la letteratura non è solo narrazione, ma anche “tratto culturale caratterizzante” e “materia da rimodellare sino a scardinare la definizione dei generi”. Il suo cinema esplora le possibili relazioni con il letterario, e ciò non solo sul piano del racconto, ma anche su quello della forma, del visivo, e questo proprio in virtù del rapporto dialettico che il regista seppe intrattenere con le diverse forme della letteratura. Dallo scrittore noir americano Cornell Woolrich il regista ricavò La sposa in nero (1968) e La mia droga si chiama Julie (1969), da Bradbury Farenheit 451, da Roché Julet et Jim e Le due inglesi, ma fondamentale è anche, nella sua poetica cinematografica, la scrittura epistolare, né va trascurato il culto degli scrittori ne La camera verde (1978), il cui protagonista custodisce i ritratti degli autori più cari in una stanza appositamente dedicata.

Truffaut fu sempre abbastanza reticente sulla sua vita privata, anche se è noto che lasciò la scuola all’età di 14 anni e lavorò in una fabbrica prima di essere mandato in un riformatorio. Il suo interesse per il cinema lo porta però all’attenzione del critico André Bazin, che Truffaut aveva conosciuto poiché come Bazin aveva fondato un cineclub; nel 1952 – dopo che Truffaut si era arruolato nell’esercito ed era stato imprigionato per aver tentato di disertare, dopo che aveva perso il lavoro come magazziniere – Bazin prima lo aiutò a ottenere il congedo, poi gli trovò un impiego presso il servizio cinematografico del Ministero dell’Agricoltura e in seguito lo assunse come critico cinematografico presso i nascenti Cahiers du cinéma, rivista mensile di cinema d’avanguardia. Ai Cahiers Truffaut conobbe e collaborò con Claude Chabrol, Jacques Rivette, Jacques Demy, Eric Rohmer, Jean-Luc Godard, condividendo con loro la posizione, chiarita nel suo pamphlet Una certa tendenza del cinema francese, contro il cinema francese contemporaneo. Nel 1954 fa il suo esordio nel cinema con il cortometraggio Une Visite e successivamente scrive la sceneggiatura di Fino all’ultimo respiro (A bout de souffle, 1960) di Godard. Divenuto, nel 1956, assistente alla regia di Roberto Rossellini in tre film che non verranno però portati a termine, nel 1957 fonda una società di produzione, Les Films du Carrosse (in omaggio a Le Carrosse d’or di Renoir) e gira il cortometraggio L’età difficile (Les Mistons), su una banda di ragazzi che perseguitano sconsideratamente due giovani amanti, che incontra un apprezzamento sufficiente per consentirgli di girare il suo primo lungometraggio, Les Quatre Cents Coups. Evocazione della ricerca dell’indipendenza dell’adolescente da un angusto e punitivo mondo adulto basato sul principio del conformismo, il film è considerato uno dei manifesti della Nouvelle Vague insieme a Fino all’ultimo respiro di Godard e riscosse grande successo, soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove ricevette una nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura. Seguirono due studi teneramente pessimisti sulle relazioni sentimentali: Sparate sul pianista (Tirez sur le pianiste, 1960), adattato dal romanzo poliziesco americano del 1956 Down There di David Goodis, e Jules et Jim (1962). Nel febbraio del 1968, Truffaut prese le difese della Cinémathèque française e contemporaneamente abbracciò – diversamente dagli altri registi della Nouvelle Vague – attività ed iniziative politiche legate al maggio francese. Dopo questa esplosione di creatività, sembrò avere un periodo di esitazione, ma tutti i suoi lavori successivi furono intensamente personali e affrontavano fondamentalmente (tranne Fahrenheit 451, versione cinematografica del romanzo di fantascienza di Ray Bradbury del 1966) due temi: gli scontri disastrosi tra eroi timidi e donne audacemente emancipate o possessive e l’infanzia abbandonata, ad esempio la saga di Doinel e Il ragazzo selvaggio (L’Enfant sauvage, 1970), un film in cui per la prima volta appare anche in veste di protagonista e che racconta la storia di un medico del XVIII secolo che tenta di addomesticare un bambino incivile; questo tema risente dell’influenza di Jean Vigo, nella sua posizione intransigente contro l’autorità di qualsiasi tipo, e di Jean Renoir, nella sua sensibilità per il luogo e l’atmosfera e la sua mescolanza di toni nostalgici con improvvisi scoppi di sfacciato umorismo, ma riflette anche l’esperienza personale del regista.

Il cinema di Truffaut deve molto al noir americano, le cui diverse manifestazioni, dagli eroi moralmente disintegrati di William Faulkner ai sadici gangster di Mickey Spillane, hanno affascinato i romanzieri francesi da Jean-Paul Sartre ai giorni nostri. Un certo culto dell’eroe, del resto, è distinguibile anche nelle lunghe conversazioni pubblicate da Truffaut con Alfred Hitchcock, il cui lavoro, a dispetto delle sue precedenti teorie, aveva destato nel cineasta francese una grande ammirazione. Con Hitchcock, Truffaut aveva in comune la fascinazione per il lato oscuro e irrazionale dell’animo umano, e si può considerare un esplicito omaggio al maestro La sposa in nero (1967), la cui musica venne composta da Bernard Herrmann, storico collaboratore del regista americano.

Secondo Truffaut, il cinema doveva essere, da un lato, personale e, dall’altro, uno splendido spettacolo. Nel 1976, fu attore per Steven Spielberg in Incontri ravvicinati del terzo tipo, dove interpreta uno scienziato in cerca di comunicazione con gli alieni. Riconoscimento e investitura, questo ruolo simboleggia il carattere della ricerca di Truffaut, che fu sempre, fino alla fine della sua vita, alla ricerca di incontri e comunicazioni con gli altri non smettendo mai la sua attività di critico, studioso, teorico e commentatore del cinema. Nel menzionato articolo del 1951 apparso su Les Cahiers du Cinéma, Truffaut aveva spiegato che la messa in scena è il riflesso dell’autore e della sua soggettiva visione della realtà. Lo stile dei suoi primi tre film, allo stesso tempo delicato, lirico ed eccezionalmente fecondo di invenzione cinematografica, divenne col tempo, in parte per scelta, più prosaico e convenzionale. Si è molto discusso se i suoi film implichino un conservatorismo militante – se, ad esempio, in L’Enfant sauvage deplori, documenti, provi nostalgia, o approvi senza riserve le rigide regole con cui il personaggio dello psicologo, interpretato da lui stesso, si impegna a civilizzare il bambino abbandonato. Può essere che l’ispirazione precedente di Truffaut fosse radicata nelle nostalgie e nelle disperazioni della sua infanzia, e che i suoi film avessero perso lirismo mantenendo la loro fedeltà al lato prosaico della vita; ma il grigiore e la piattezza della vita sono stati registrati con un senso di rassegnazione e tranquilla realizzazione ben distinti dalla banalità o dal petulante nichilismo: lettore emotivo dell’esistenza, attento rappresentatore della quotidianità della vita e dei suoi scacchi, il suo lascito è un cinema che respira l’aria della leggerezza e dell’inquietudine.

Figura amatissima (celebrata anni fa in un bellissimo spettacolo teatrale interpretato da Sergio Rubini e scritto da Mario Sesti con il giornalista Valerio Cappelli), visse una vita a precipizio, e fece un cinema studiatissimo ancora oggi, frutto di una ricerca caratterizzata da coraggio, determinazione, passione; la stessa passione che lo portò ad amare molte donne – dalla prima moglie Madeleine Morgenstern, alla piccola Claude Jade fino a Fanny Ardant, passando per molte protagoniste dei suoi film – e che gli meritò il soprannome di «seduttore seriale appena cala la sera». Una vita tumultuosa, percorsa da intensi rapporti umani – come quello, complesso e fecondo, con Jean-Luc Godard, che accusò di ipocrisia e di «snobismo calcolato» in lettere durissime nate da un confronto a tratti violento ma nitido – che conosciamo grazie al ricchissimo archivio epistolare e alle conversazioni con l’amato Hitchcock, Bazin, Godard, Rohmer, Aznavour: lettere caratterizzate da una prosa raffinata e tanto più sorprendente se si considerano la sua formazione da autodidatta e i suoi trascorsi scolastici contrassegnati da accidenti, espulsioni, rivolte. Merito della poliedrica, vorace, famelica cultura che si era costruito fin dall’infanzia e aveva rincorso pur tra i molti accidenti della sua giovinezza, tra cui il riformatorio e diversi tentativi di suicidio. Un caleidoscopio di immagini e parole che ancora oggi e per sempre illuminerà il carattere di questo straordinario personaggio fatto di luce intensa e molte ombre: François Truffaut, l’uomo che amava il cinema, i libri e le donne.

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