C’era una volta un merlo canterino, di Otar Ioseliani (URSS 1970)

di Andrea Lilli –

È straordinaria la varietà di immagini legate alla musica che ci arrivano dall’Ucraina bombardata e assediata. Alla distruzione feroce di un auditorium, di un teatro-rifugio come quello di Mariupol, fanno da contrappeso simbolico la pianista che suona per strada, i musicisti che continuano ad esercitarsi nelle case sventrate e nella metropolitana-bunker, i soldati violinisti, i canti condivisi, tra cui quello resistenziale per eccellenza: Bella ciao. Il sostegno che può dare la musica in situazioni catastrofiche è miracoloso, talvolta grottesco. Lo sanno gli aggrediti, lo sanno gli aggressori: Putin per affollare lo stadio di Mosca lo ha apparecchiato con stelle rock-pop russe. Così facendo ha ottenuto una maggiore quantità di ascolto televisivo e la benevolenza, il consenso preventivo riguardo alle tesi sostenute nel suo comizio di guerra.

I musicisti ucraini resistenti possono invece far tornare alla mente film come questo, dove l’esercizio del suono armonico è contrapposto agli eserciti del frastuono, del motore a scoppio, degli spari e delle bombe, come Davide a Golia. La loro vulnerabilità ricorda la fragilità di un merlo canterino travolta fatalmente, come un gatto in tangenziale, dalla cacofonia aggressiva del traffico di una grande città.

Il film racconta la vita di un giovane musicista, Ghia (Gela Kandelaki), mentre attraversa le strade, la varia umanità, i suoni e la musica di Tbilisi. E viceversa: il film è un magnifico affresco sonoro della capitale georgiana composto attraverso il racconto delle ultime due giornate di vita di Ghia. La musica è comunque protagonista. Nella prima sequenza vediamo in primo piano un vero volatile chiuso in gabbia che tenta di cinguettare mentre scorre incessante il basso continuo delle macchine, il rombo assordante dei camion in un incrocio ad alta frequentazione. Subito dopo, tra l’erba alta di un parco ecco Ghia appollaiato come Birdy, nervoso, l’occhio attento che scruta i dintorni alla ricerca di qualcosa, o qualcuna. Infatti, mentre procede col solito ritardo sulla strada per il lavoro, lo vediamo intrattenersi con almeno due donne consecutive.

Osservatore inquieto, attratto irresistibilmente dalla buona musica e dalle donne tanto quanto dal buon vino e dagli amici con cui ripartirlo, inaffidabile negli appuntamenti e in relazioni sentimentali impegnative, Ghia è il timpanista dell’orchestra sinfonica della capitale georgiana. Giovanotto simpatico, bravo e preparato, è però detestato dal direttore per l’abitudine, nei concerti, di apparire sul palcoscenico solo per i secondi strettamente necessari alla propria esecuzione, per poi sparire di nuovo. Il fatto è che Ghia non ha tempo da perdere, secondo il suo punto di vista. Forse sente che il suo tempo è limitato, destinato a finire presto, fatto sta che lo dedica in modo frenetico ad altre priorità: quelle che gli danno più piacere. Le ragazze, gli amici, i parenti, i compagni di bevute, altre ed eventuali distrazioni occasionali.

Incapace di gestire il flusso incessante delle curiosità che di continuo gli si accavallano in agenda, le nuove sovrascritte sulle vecchie, fino a un certo punto riesce in qualche modo a tenere insieme desideri e doveri, non prendendo troppo sul serio i primi, trascurando i secondi. La sua non è mancanza di rispetto per gli altri, bensì una forma di dipendenza per l’adrenalina che può essere prodotta da una pratica della totale libertà individuale. Qualcosa di simile alla sindrome del protagonista di L’uomo che amava le donne (1977), che però era più malinconico, solitario, e assolutamente monotematico. Due forme di voyeurismo attivo apparentemente sorelle, ma di ‘umore’ differente – e comunque Truffaut fu uno dei primi ad apprezzare Ioseliani, e ad identificarsi nel carattere e nelle abitudini di Ghia.

Ghia è nevrotico ma solare, amico di tutti, nemico di nessuno. Capace di dare buche clamorose, e però anche di ricordarsi di portare un libro o un disco promesso a un amico. Sguinzaglia il suo libero arbitrio in modo talmente spontaneo e completo che nessuno può accusarlo di bieco egoismo. Il musicista si è dato la regola chiara di non regolarsi: lui è fatto così, prenderlo o lasciarlo. Il sistema sociale, che difficilmente tollera eccezioni, se lo prenderà e lo lascerà a terra. Il tempo, di cui è fatta ogni musica, continuerà per altri a scansire i secondi le ore i giorni, ma l’orologio di Ghia ha perso le lancette nel momento in cui lui ha perso di vista le gambe di una donna.

Ioseliani disinnesca ogni morale mantenendo un’ironica neutralità nel sottinteso processo alla sua creatura: in equilibrio tra assoluzione e condanna, il giudizio del regista resta saggiamente in sospeso.

Otar Ioseliani, nato a Tbilisi nel 1934, si è diplomato in pianoforte, composizione e direzione d’orchestra al Conservatorio della sua città natale. Poi si è trasferito a Mosca, dove ha studiato matematica prima di iscriversi alla prestigiosa Scuola di cinematografia VGIK. Migrato in Francia nel 1983 per sfuggire alla censura sovietica, è tuttora il regista georgiano più noto al pubblico internazionale.

La Georgia ha fatto parte dell’Unione Sovietica fino alla disgregazione di questa nel 1991; da allora è una nazione indipendente che nel nuovo millennio ha conosciuto guerre caratterizzate da dinamiche simili a quelle poi viste in Ucraina, affacciata sul Mar Nero come la Georgia e la Russia. Oltre che nella geografia, la Georgia è vicina all’Ucraina nella storia dei ventitré anni di rapporto conflittuale con la Federazione Russa gestita da Putin.


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