L’uomo che amava le donne, di François Truffaut (1977)

di Bruno Ciccaglione

La leggerezza del tocco, la sincerità delle emozioni, la malinconia e l’ironia assieme, la devozione al proprio sentire profondo, il proprio senso di solitudine. Questo e molto altro è il cinema di Truffaut, questo e molto altro è il film ‘L’uomo che amava le donne’ (1977), vita e opera di un seduttore che in realtà è sedotto, un’opera che col suo stile da commedia brillante affronta con delicatezza e profondità gli interrogativi sul senso che ciascuno decide di dare alla propria vita.

Il film è costruito con un meccanismo narrativo articolato e sapiente: all’interno di un flashback che si apre all’inizio del film e si chiude nel finale, guidati dalla voce narrante di una donna, apprendiamo la vicenda di Bertrand Morane durante il suo funerale, l’uomo che – lo capiamo subito dalla partecipazione esclusivamente femminile alle onoranze funebri – non solo amava le donne, ma è stato amato, dalle donne.

Parallelamente a questa narrazione in terza persona, si aggiungerà presto quella in prima persona, con il “morto che parla”, attraverso un manoscritto autobiografico, costruendo un film che è una sequenza avvincente e non cronologica di flashback in montaggio alternato, avvincente nonostante sappiamo già come la storia andrà a finire (ma non lo sappiamo sempre, del resto?).

Dunque Morane è un personaggio che dà corpo alle fantasie di molti uomini (tutti?): amare ed essere amato da moltissime donne, senza legarsi a nessuna, eppure in un modo molto rispettoso delle donne. Dalla sua attitudine è assente ogni traccia di machismo e anzi semmai ad animarlo c’è una devozione per la “magia delle donne” che è quasi una paura e che lo porterà, nel finale, alla sua precoce morte. “Nei miei film si torna spesso (anche nei dialoghi) sulla ‘magia’ delle donne – dirà Truffaut – (…) Mi sembra che, se si vuole eliminare l’idea (maschilista?) della supposta magia femminile, si perde qualcosa, dal punto di vista dell’arte, anzi si perderebbe molto”. Il protagonista del film è un collezionista, ma in definitiva lo è per paura dell’amore.

Truffaut disse che il film avrebbe potuto chiamarsi L’uomo che aveva paura delle donne: “Il protagonista rifugge dai legami, ha paura di vivere con una sola donna e quindi si rifugia nella quantità. Quando il film è uscito qualcuno mi ha detto: Morane è un uomo che vorrebbe diventare donna. Non ci avevo pensato, ma è un’ipotesi suggestiva“.

Il Morane di Truffaut è dunque un collezionista ed inevitabile fu il paragone, alla sua uscita, con il Casanova di Fellini (1976), che faceva a pezzi il mito della virilità italica. Ma a differenza di Morane il Casanova di Fellini colleziona donne come uno sportivo colleziona medaglie o record, ed è proprio questa dimensione che Fellini mette in ridicolo. Truffaut si scherniva di cotanto paragone, considerando il Casanova di Fellini un film stupendo e Fellini un genio a lui molto superiore. Gli pareva che Fellini, col suo ritorno in studio e l’abbandono degli ambienti reali fosse molto più capace di lui, di quell’artificio che riteneva l’essenza del cinema: „Tutto nel Casanova mi emoziona, anche il mare di plastica (…). Mi vengono le lacrime agli occhi quando vedo questo, perché è un modo di ritornare davvero alle ragioni per cui il cinema è stato inventato: il cinema non è stato inventato per fotografare il sole alle cinque del pomeriggio”.

È vero che Truffaut con il suo film girato in ambienti reali non raggiunge la ricchezza visiva del Casanova di Fellini, eppure il suo film riesce a farci riflettere e sognare in un altro modo. Con questo film Truffaut si interroga sulle sue passioni : “Il cinema è l’arte di far fare delle belle cose a delle belle donne”, dirà il regista che si innamorava delle protagoniste dei suoi film. Ci racconta una ossessione vissuta con una “coerenza” incapace di moderazione: Morane finisce sotto una macchina per seguire le belle gambe di una donna sul marciapiede di fronte al suo; morirà nel protendersi dal letto di ospedale verso la bella infermiera, staccandosi dalle macchine che lo tengono in vita; si interroga sull’amore e sul senso della vita con leggerezza, profondità e senso di inadeguatezza. Come il suo protagonista, Truffaut si sente un uomo del passato che guarda malinconicamente alle trasformazioni della società: “Si rammenta quando, diversi anni fa, sono uscite le minigonne?

Gli uomini erano come impazziti. Ma io ero piuttosto preoccupato- dirà Morane -, perché ho pensato: be’, a questo punto non possono più accorciare, e dovranno per forza allungare”. La riflessione finale non tocca perciò al protagonista, ma ad una donna, quella che forse più di tutte ha compreso il protagonista, decidendo di pubblicare il suo libro di memorie. La sua editrice-amante chioserà: “Morane ha inseguito la felicità nella quantità, per un bisogno di cercare in tante persone ciò che la nostra educazione pretende di farci trovare in una sola”. Con questa acuta riflessione finale, mentre il protagonista esprimeva il proprio smarrimento di fronte alle trasformazioni ed alla stessa emancipazione femminile, forse Truffaut vuole suggerirci che se vogliamo riporre fiducia nel futuro, è alle donne che bisogna affidarsi, è da loro che bisogna farsi prendere per mano e guidare.

 

Nota bibliografica: François Truffaut, professione cinema, Intervista di Aldo Tassone nel 1977 (https://www.sentieriselvaggi.it/francois-truffaut-professione-cinema-3/)

 

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