Quinto potere, di Sidney Lumet (1976)

di Roberta Lamonica

I’m as mad as hell, and I’m not going to take this anymore!’

(Howard Beale)

‘Quinto potere’ (Network, 1976), di S. Lumet. Con F. Dunaway, P. Finch, W. Holden, R. Duvall, N. Beatty, B. Straight. Sceneggiatura di Paddy Chayefsky.

Aaron Sorkin, celebrato sceneggiatore di Hollywood, ha dichiarato: “Nessun profeta del futuro, nemmeno Orwell, ha avuto ragione quanto Chayefsky quando ha scritto Network”.

‘Quinto potere’ (titolo italiano sulla scorta di Quarto Potere assegnato a ‘Citizen Kane’ di Welles, volto a demonizzare il potere della stampa, mentre qui si demonizza quello della televisione) è stato spesso definito film dello sceneggiatore più che del pur ottimo Lumet. Questo perché la ferocia, la rabbia e l’odio che trasudano dagli splendidi dialoghi di questo film irrinunciabile rispecchiano più che la visione del regista, quella di Chayefsky, lo sceneggiatore, appunto.

Ebreo coltissimo e intellettuale vedeva la cultura americana diventare sempre più antisemita e i soldi arabi comprare sempre più spazi di interesse economico negli Stati Uniti. Al centro della sua frustrazione c’era il ruolo della televisione che lui stesso aveva contribuito a far crescere e modellare con idee e sceneggiature di grande successo e che invece di occuparsi degli accadimenti importanti nel mondo, forte dell’altissimo numero di fruitori, era diventata un orrendo meccanismo commerciale che serviva solo a intrattenere gli spettatori e a tenerli fuori dai cambiamenti che stavano avvenendo intorno a loro.

Gli investitori erano preoccupati esclusivamente del profitto e degli interessi commerciali e propagandistici. Gli indici di gradimento erano ciò che dava forma ai programmi, persino quelli di informazione che invece avrebbero dovuto garantire l’autenticità dei messaggi trasmessi.

E allora scrive un film che è una satira feroce su ciò che è diventata la società manovrata, gestita e orientata dai network televisivi.

Il protagonista, Howard Beale (uno strepitoso Peter Finch, unico Oscar postumo insieme a H. Ledger), storico anchor man della UBS , viene licenziato per i bassi indici di ascolto, causati dalla sua incapacità di spostare il notiziario sui binari dell’intrattenimento. Così, a sorpresa dichiara che si toglierà la vita la settimana successiva in diretta televisiva. Dopo aver chiaramente creato un caso e morbosa curiosità tra gli ascoltatori (paradossali che chiamate dei telespettatori “ben 900!” che si lamentano delle parolacce che Howard ha detto e non del suo proposito suicida), torna in Tv

spiegando in uno dei tre monologhi memorabili del film:” Ho annunciato durante questo programma che io mi sarei pubblicamente suicidato. Chiaramente un gesto da pazzi. Sapete perché l’ho detto? Avevo esaurito le cazzate”. Questo ‘delirio incontrollato’ esalta la rampante Diana Christensen ( F. Dunaway, in un’interpretazione femminile indimenticabile), produttrice di programmi per il network che convince i vertici a confezionare un programma (abbastanza trash, a dire il vero) cucito su misura per il ‘pazzo profeta dell’etere’.

Diana è figura centrale su cui si concentrano tutti i mali del mondo della comunicazione. Donna moderna e in carriera, ha un rapporto quasi fisico con il suo lavoro: ed è per questo che il piacere che le procura in orgasmo è fugace e secondario rispetto a quello che le procurano gli indici di ascolto. La sua bocca si umetta, gli occhi si accendono di passione e il suo corpo si propone al suo interlocutore non appena un’idea ‘rivoluzionaria’ per il suo lavoro le sfiora la mente. Si potrebbe dire che il personaggio di Diana inventi letteralmente la futura (oggi presente) reality television, con la messa in onda di un programma ‘L’ora di Mao Tse Tung’ in cui una rapina, un attacco terroristico o addirittura un assassinio in diretta hanno valore solo in virtù dello share che ottengono.

Purtroppo il linguaggio del corpo di Diana, la sua ambizione senza limiti sono espliciti e leggibili anche per Max Schumacher (W. Holden), capo di Howard e suo amico, nonché amante di Diana. Max comprende la natura cinica e spregiudicata di Diana e se ne invaghisce lo stesso, forse per sentirsi ancora giovane ma certamente nel tentativo disperato di salvare l’idea romantica di televisione e di informazione dei suoi inizi per resistere al mostro che avanza, al Leviatano che tutto fagocita.

È per questo che in un drammatico confronto finale dirà a Diana: “È troppo tardi… In te non è rimasto nulla con cui io possa vivere. Tu sei uno degli umanoidi di Howard. E se resto con te verrò distrutto, come Howard Beale è stato distrutto. Come Laureen Hobbs è stata distrutta. Come tu e tutto quello dell’istituzione della televisione toccate viene distrutto. Tu sei la televisione incarnata, Diana: indifferente alla sofferenza, insensibile alla gioia, tutta la vita si riduce a un cumulo informe di banalità”.

E cosi i 4 schermi televisivi inquadrati su cui si apre il film con il voice over che presenta la storia che gli spettatori vedranno, danno origine a un percorso circolare che passa dalla morte annunciata in televisione alla morte ‘vera’, in televisione i cui significati orrendamente coincidono. Fin dall’inizio si stabiliscono gli elementi che contano: indici e share.

I 4 schermi nelle inquadrature finali che mandano in onda in modo alternato le immagini dell’omicidio di Howard, di bimbi felici e di onde che si infrangono sugli scogli sono la prova deflagrante dell’impossibilità di riconoscere la realtà dalla sua spettacolarizzazione od orribile banalizzazione.

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