Lo sguardo di Ulisse (1995), di T. Angelopoulos.

di Maurizio Ceccarani

“Quando tornerò, avrò i vestiti di un altro uomo, e mi presenterò con un nome diverso, e tu non mi riconoscerai. Ma poi ti indicherò la finestra in fondo, e la stanza, e i segni sul corpo…”.

Sono queste, più o meno (cito a memoria), alcune parole del lungo monologo che Harvey Keitel recita alla fine de Lo sguardo di Ulisse, di Theo Angelopulos.

Doveva essere il nostro Gian Maria Volontè, l’eroe stanco del film di Angelopoulos. E invece un attacco cardiaco stroncò a soli 61 anni la vita del grandissimo attore italiano, lasciando un vuoto incolmabile. Chissà come sarebbe stato il suo Ulisse, che fiamma ardente avrebbe brillato nei suoi occhi? Quella fiamma si spense proprio sul set del film e il regista greco dovette sostituirlo. Forse non si sarebbe potuta fare scelta più adeguata: è un Harvey Keitel provato, con gli occhi lucidi e il volto sfatto, forse un po’ legnoso, ma finalmente libero dal cliché tipico dei suoi ruoli. È come se il lungo viaggio di cui narra il film avesse cambiato non solo il personaggio, ma anche l’interprete. Parafrasando alcune battute del film, il viaggio sembra essere la prima cosa inventata da Dio, a cui seguirono il dubbio e la nostalgia. Perché il viaggio non è mai solo uno spostamento da un posto all’altro, ma la ricerca nell’anima di qualcosa che ci tormenta, qualcosa che abbiamo perso inconsapevolmente: lo sguardo innocente con cui guardammo il mondo per la prima volta.

Harvey Keitel interpreta A., un regista che dopo un esilio in America torna nella sua città, Florina, un piccolo centro nel Nord della Grecia, per presenziare alla proiezione di un suo film che viene contestato soprattutto dalla componente ortodossa della sua comunità. In realtà A. (abbreviazione non casuale) è tornato per portare a termine un incarico propostogli da una cinemateca (sic): ritrovare tre rulli mai sviluppati dei fratelli Miltiades e Yannakis Manakis. Sono, questi fratelli, i pionieri della cinematografia nella penisola balcanica. Hanno documentato, nei primi del ‘900, un mondo che non c’è più, un mondo innocente, semplice, senza pregiudizi di razza o religione, un mondo giovane e laborioso di cui nel film ci appare solo un frammento: Le tessitrici di Avdella.

Questa ricerca per A. è diventata un fatto personale, trovare quei rulli è l’unica cosa che può salvarlo da una notte buia in cui sente che sta per cadere.

Il film è concepito come un

viaggio che inizia in Grecia e continua attraverso l’Albania, la Bulgaria, la Romania, la Serbia e infine la Bosnia. A. parte da Florina con un tassista, che riempie la scena con i suoi discorsi sulle sorti future della Grecia, questi accompagna il regista in Albania, dove lo aspetta un paesaggio innevato popolato da profughi che, come ombre, vagano in prossimità del confine nella speranza di passare, e che spesso vengono rimpatriati. Tutto è reso da lunghi piani sequenza, sottolineati da musiche e canti popolari. Alle soglie della Macedonia il tassista si ferma, con la scusa della neve non vuole più procedere.

A. raggiunge Monastiri (oggi Bitola) presumibilmente in autobus. A Monastiri la casa dei fratelli Manakis è stata trasformata in museo. Lì si incontra con un’impiegata a cui chiede informazioni sui rulli. Lei è Kali (Calipso), interpretata da Maia Morgenstern, attrice che interpreta tutte le donne che, nel traslato allegorico, hanno a che fare con Ulisse.

È apparsa già, come un antico amore (Penelope), in una sorta di visione, quando A. si trovava ancora a Florina; la rivedremo, nel corso del racconto, in ruoli riconducibili a Circe e a Nausica.

La narrazione, fin dall’inizio, su diversi piani temporali che si intersecano continuamente.

In altre parole, i flashback non sono solo scene che rappresentano momenti del passato, ma sono animati dalla presenza anacronistica di A. che rivive quei momenti nei panni che veste nel presente. È come se egli visitasse gli episodi passati, entrandone a far parte, così pure elementi del passato invadono spesso la scena del presente.

In questo modo sono rappresentati sia la morte di Yannakis Manakis, nelle prime battute del film, sia l’arresto del medesimo, per cospirazione contro la Bulgaria, quando A. attraversa appunto il confine tra la Macedonia e questo Stato.

Kali (Calipso) ormai persa nel mistero e nel fascino del suo Ulisse, accompagna A. fino a Costanza, in Romania, dove di nuovo il tempo narrativo rompe la sua linearità. Siamo ora in una casa borghese, A. ritrova la madre, interpretata da Mania Papadimitriou, che si rivolge al regista come fosse un bambino. In un’unica sequenza vediamo festeggiare in questa casa il Capodanno del 1945 con il ritorno a casa, da Mauthausen, del padre di A., il Capodanno del 1948, con l’arresto di uno dei componenti della famiglia, e il Capodanno del 1950, con l’esproprio che il nuovo regime opera nei confronti delle famiglie borghesi. È la storia della famiglia di A. rappresentata in un unico sbalzo temporale che chiarisce, almeno in parte, le nostalgie e i turbamenti del nostro Ulisse. 

Il racconto riprende quando Kali e A. si risvegliano in un albergo di Costanza. È il momento degli addii, è ora che Calipso lasci andare Ulisse “Io non ti posso amare”, è una delle frasi di congedo. Così A. sale su una chiatta che trasporta una statua di Lenin smontata, come ormai smontata è tutta la ex Jugoslavia. È questa una delle scene più belle e rappresentative del film. La chiatta scivola silenziosa sul Danubio, per portare il cimelio a certi collezionisti in Germania. La testa di Lenin è a poppa, mentre un braccio, con l’indice puntato verso la prua, indica un futuro incerto e senza speranza. Lungo le rive la gente si accalca, segue come può il percorso dell’imbarcazione, saluta, si inginocchia, si fa il segno della croce ortodosso. Arrivato a Belgrado, A. si incontra con Nikos, un vecchio amico che, dopo aver ricordato e celebrato insieme il passato comune, gli procura delle informazioni utili per il ritrovamento dei rulli.

L’ultima tappa è una Sarajevo straziata dalla guerra,insidiata continuamente dai cecchini. Una Sarajevo che continua a vivere a dispetto della morte quotidiana che incontra lungo le sue strade. Lì, dopo un’affannosa ricerca, A. incontra Ivo Levi, il responsabile della cinemateca che costudisce i rulli non ancora sviluppati.Il ruolo è interpretato da Erland Josephson, che ha sostituito Gian Maria Volonté morto purtroppo nel corso delle riprese. Ivo ha provato a sviluppare i rulli, ma ancora non ha messo bene a punto la formula giusta degli acidi. Su esortazione di A., Ivo prova ancora e finalmente riesce a portare alla luce quello che cerca il regista. 

 

A Sarajevo scende la nebbia, è il momento buono per festeggiare, si può uscire a fare una passeggiata, i fucili dei cecchini con la nebbia tacciono. In una scena surreale, escono insieme A., Ivo, e sua figlia, questa volta Maia Morgenstern nella veste di Nausica. Purtoppo anche nella nebbia non c’è tregua. Si sente arrivare una macchina. “Qualsiasi cosa accada non si allontani da qui”, dice Ivo, che lascia A. per raggiungere la figlia che li precede. Si sentono degli spari, i corpi cadere e poi non resta che il pianto di un Ulisse straziato dal dolore, un Ulisse che però non si rassegnerà a cercare quello sguardo innocente che la Storia gli ha rubato.

Il film è del 1995. È stato premiato a Cannes con il Gran premio della giuria, ed è il secondo film della trilogia dedicata da Angelopulos alla raccolta di racconti di Albert Camus L’esilio e il regno, dove, nella simbologia dell’autore francese, la vita costituisce una sorta di “esilio” che si consuma nel vano tentativo di raggiungere il “regno”, inteso come momento esistenziale di felicità, conoscenza, solidarietà. Gli altri due film della trilogia sono Il passo sospeso della cicogna (1991) e L’eternità è un giorno (1998). Tutta la trilogia è animata dalla necessità di varcare un confine per uscire dall’esilio, e dal mistero che oltre questo confine ci aspetta. Lo sguardo di Ulisse non è un film, come da alcuni è stato equivocato, sulla guerra nei Balcani, e per questo visto con dei limiti nei confronti di quella tragedia. È un film sull’incapacità dell’uomo di rimanere puro, fedele alla sua natura primordiale. È un film (altro motivo per cui è stato criticato) in cui i dialoghi sono asciutti, essenziali, poco colloquiali, dialoghi in cui le parole pesano perché hanno una valenza epica, ed è anche un film sull’impossibilità di amare, proprio per quei confini che l’uomo impone a se stesso e che poi cerca di varcare alla ricerca sconsiderata di una felicità perduta.

 

Scheda del film

Titolo: Lo sguardo di Ulisse 1995

Regista: Theo Angelopulos

Sceneggiatura: Theo Angelopulos, Tonino Guerra, Petros Markarīs, Giorgio Silvagni

Musiche: Eleni Karaindrou

Interpreti pricipali: Harvey Keitel (A. il regista), Maya Morgenstern (le donne di A.), Mania Papadimitriou(madre di A.), Erland Josephson (Ivo Levi), Thanasis Vengos (tassista), Giogos Michalakopoulos (Nikos).

 

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