di Greta Boschetto
“Break up – L’uomo dei cinque palloni” è un film del 1963/1967 di Marco Ferreri con Marcello Mastroianni, Catherine Spaak e Ugo Tognazzi.
“Fino a che punto questo pallone si può gonfiare? Perché se io smetto di gonfiare e dentro c’è ancora dello spazio, il mio è un fallimento, quindi il problema è semplice ma è grave allo stesso tempo, perché se io non ci riesco sono un fallito morale! Siccome voi invece di problemi morali non ce ne avete dentro, siete degli stronzi!”
Mario
Quanta aria possiamo soffiare in un palloncino prima di arrivare a farlo scoppiare, rischiando così di liberare le nostre ossessioni e i nostri squilibri? Quanto finto benessere capitalistico può contenere una società fragile come la nostra, racchiusa solo in uno strato sottile di plastica, elastico ma delicato?
Marco Ferreri prova a spiegarcelo con le immagini, tramite il simbolo del palloncino, oggetto scatenante della follia allucinata di Mastroianni tanto quanto lo fu la pistola per Michel Piccoli in “Dillinger è morto”, piccole cose semplici che diventano indecifrabili per entrambi i protagonisti, abituati a eseguire la vita come automi, spiazzati da loro stessi nel momento in cui intuiscono che non riescono più a riconoscersi come parte della società che fino a poco prima alimentavano con convinzione.
Serigrafie di meccanismi industriali aprono il film, stampe create a ripetizione, seguite subito dopo dalla voce del protagonista, proprietario di una fabbrica di caramelle, che dice ossessivamente “trecentoquarant’otto, trecentoquarant’otto, siamo sotto di otto!”
Produzione folle e instancabile, come i movimenti di Mario (Mastroianni), inesauribile nelle sue valutazioni continue, nel trattare i suoi domestici come macchine, nello sgridare e cercare di correggere la sua compagna (Spaak).
Mario è un invasato di produttività, vive in una bella casa nella quale ha mescolato design e antiquariato, ha una fidanzata che lo soddisfa, vuole fare ancora più soldi grazie a dei palloncini per sponsorizzare la sua attività: è il tipico arricchito della società del benessere, quella che stava avendo il suo “boom” negli anni 60 in Italia.
Ma ecco che arriva un minuscolo granello che blocca tutto il meccanismo, l’irrazionale si insinua violentemente nell’ordinario, si espande come un virus, trasforma una storia banale in una ballata sui complessi a ritmo di musica preindustriale mischiata al beat più scanzonato.
Un dubbio che si trasforma in paura può rovinare la vita di un uomo, soprattutto in una società frenetica che non permette sosta, che cerca di espandersi al massimo e quindi sempre a rischio di esplosione.
La spirale diventa sempre più allucinata e onirica e culmina, prima del finale, nella scena della festa dei palloncini, girata a colori e aggiunta anni dopo, quando il film passò dall’essere un cortometraggio violentato dal produttore Carlo Ponti alla sua forma originale di lungometraggio, una sequenza che trasforma una domanda da sogno a incubo.
Ferreri mette in scena, con la sua tipica satira tagliente e col suo umorismo nero, un viaggio ossessivo nelle patologie comportamentali a lui tanto care: mischia cibo, sesso, incomunicabilità ma soprattutto parla della condanna alla solitudine dell’uomo moderno, perché alla fine questo è Mario, incompreso, alienato e votato inconsciamente all’autodistruzione, forse liberatoria o forse una sentenza che emette verso le sue stesse fragilità.
In una Milano in bianco e nero ma già agitata e caotica, non c’è tempo per porsi domande e soprattutto per capire i gesti degli altri ma anzi, come Tognazzi, che ritroviamo in un piccolo cameo nella sequenza conclusiva del film, ci indispettiamo solo se subiamo danni: a chi non è capitato, in metropolitana o su di un treno, di sentire qualcuno urlare infastidito, all’annuncio di un ritardo per un suicidio: “ma proprio ora si doveva buttare?”