di Bruno Ciccaglione

La cosa più sorprendente de Il traditore di Bellocchio è che il suo autore non si sia reso conto – o lo abbia consapevolmente accettato – del rischio di una apologia della mafia, che vince sempre e che sempre vincerà. Non a caso infatti, uno dei due consulenti scelti per assistere nella ricostruzione storica è il giornalista Saverio Lodato, autore del libro intervista a Tommaso Buscetta “La mafia ha vinto” (1999), che pare una delle principali fonti usate per il film.
Il dilemma su come rappresentare e raccontare la mafia non è nuovo e non riguarda neppure soltanto il cinema. Si pensi al libro sulla mafia per eccellenza, Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, e al cruccio con cui l’intellettuale siciliano ha sempre ricordato la famosa classificazione in cinque categorie che va dagli uomini ai “quaquaraquà”: l’efficacia di quella formulazione letteraria, alla fine, era diventata fonte di ispirazione degli stessi mafiosi e concorreva alla celebrazione del mito degli uomini d’onore, capaci di riconoscere i loro simili anche fra le forze a loro contrapposte. Sciascia, insomma, raccontava che se fosse potuto tornare indietro, avrebbe probabilmente cassato quella classificazione così efficace, ma che tradiva l’intento di fondo del suo romanzo. Non casualmente, secondo Sciascia, il miglior film sulla mafia era Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, che sceglieva uno stile realistico da documentario e che per evitare la celebrazione del criminale aveva deciso di non mostrare mai il volto del bandito per tutto il film, tranne che da morto, né di farne ascoltare la voce.

Ancora a dirci di una problematicità della rappresentazione della mafia, si pensi a un film come Il padrino di Francis Ford Coppola, che pur nella sua grandezza cinematografica, contribuisce a rafforzare la retorica sulla “buona mafia di una volta”, contrapposta alle presunte “degenerazioni” successive (una retorica che a ben vedere si ripete ciclicamente ogni qualvolta un nuovo assetto di potere si sostituisce al precedente nel mondo mafioso e che sarà tipica della narrazione di Buscetta). Oppure si pensi, per venire ad anni recenti, alla operazione de I cento passi di Marco Tullio Giordana, dove, al di là delle evidenti distorsioni e banalizzazioni del pensiero di Peppino Impastato (Lo Cascio costretto a dire: “E allora invece della lotta politica, della coscienza di classe, tutte le manifestazioni e ‘ste fessarie, bisognerebbe insegnare alla gente che cos’è la bellezza, a riconoscerla, a difenderla”, una cosa che Impastato non si sarebbe mai sognato di pensare), un boss come Tano Badalamenti risulta fin troppo umanizzato, con le sue tirate paternalistiche sui giovani degli anni ’70. Infine, per tornare ad un cinema d’autore di livello straordinario, si pensi a The Irishman di Scorsese, che in diverse interviste ha sottolineato come per lui fosse importante tornare a raccontare storie di mafia, perché lo tormentava il dubbio che i suoi capolavori Good Fellas e Casino, avessero concorso a creare il mito, anziché a stigmatizzare come avrebbe voluto, sulle vite degli “uomini d’onore”: per questo, con il suo ultimo film aveva cercato di rappresentarli in modo completamente diverso (vecchi e goffi anche da giovani).

Dunque come sempre, ma soprattutto quando i temi che si toccano sono così ricchi di implicazioni storiche, sociali, politiche e anche etiche, è essenziale che vi sia non solo una profonda conoscenza storica dei fenomeni, ma anche una piena consapevolezza nell’uso del mezzo cinematografico, del suo linguaggio, delle sue capacità di suggestione. Altrimenti si corre il rischio di ottenere il risultato che ottenne ad esempio la serie Il capo dei capi, dopo la cui visione si scoprì, con una inchiesta fatta tra gli studenti siciliani, che prima di vederla neppure sapevano chi fosse Totò Riina, come il boss corleonese fosse diventato per loro una figura mitica e che i martiri dello stato venissero invece percepiti come degli stupidi e degli ingenui, sacrificatisi non si sa bene per quale motivo (chi scrive ricorda che in tutta Italia si registrò, tra lo sconcerto generale, un proliferare di scritte inneggianti a Totò Riina). Da un regista come Bellocchio ci si sarebbe dunque attesi, che questa consapevolezza del mezzo e dei rischi insiti in questo progetto fossero chiari. Il risultato, invece, è un film che cavalca il mito del “boss dei due mondi”, un mafioso che è tanto più affascinante quanto più la sua figura si distacca da quella fin troppo santificata dalla retorica di tanta antimafia.

Che l’idea di Bellocchio di una lettura emotiva – e non strettamente fedele alla vicenda storica – di vicende chiave della storia d’Italia fosse problematica, era già stato evidente in Buongiorno, notte. In quel caso, rispetto al rapimento e all’uccisione di Moro, questo approccio, se legittimava la presenza di una dimensione sognante che prefigurava come le cose avrebbero potuto andare altrimenti, in realtà accreditava un po’ acriticamente la valutazione emotiva ex post di Anna Laura Braghetti (la brigatista coinvolta nella prigionia di Moro, proprietaria dell’appartamento in cui fu tenuto nei 55 giorni del sequestro), sul cui libro il film si basava, che oggi sostiene di essere stata allora intimamente contraria alla uccisione del presidente della DC. Con la figura di Buscetta i rischi erano simili e per certi versi ancora superiori. Il ruolo chiave svolto da Buscetta come collaboratore del pool-antimafia per la realizzazione del maxi-processo a Cosa Nostra ha prodotto una specie di beatificazione civile del personaggio, ma bisogna dire che Bellocchio riesce ad evitare una presentazione agiografica.

Il problema però, è che man mano che il film accompagna il percorso di vita ed emotivo del boss, tanto più il suo percorso si avvicina ad una collaborazione piena e senza riserve con lo Stato, tanto più il film si incupisce, fino a culminare nella umiliazione subita al processo Andreotti per opera dei suoi avvocati. In altri termini: mentre il Buscetta mafioso è intelligente, spavaldo, potente, fa la bella vita ma è un vero duro, il Buscetta “traditore” è fragile, incerto, impaurito, stanco e malato. E in ultima analisi, di fronte al “vero” potere mafioso, sembra suggerire il film, è uno sconfitto. Eppure Buscetta è morto nel suo letto, come sognava e forse non si sarebbe immaginato, mentre i suoi nemici Riina e Provenzano sono morti entrambi al 41bis, dopo molti anni di galera (quest’ultimo, il vincitore per eccellenza della mafia vincente, addirittura, dopo anni di demenza e semi incoscienza). Bellocchio cavalca l’onda – questa sì, emotiva – di quanti, moltissimi, vogliono pensare che la mafia sia una specie di Spectre che vince sempre, i cui capi sono dei geni del male inafferrabili, salvo poi trasformarsi in poveri pecorai appena catturati, perché il “capo dei capi”, quello vero, è sempre il latitante che ancora non è stato preso. Non basta che negli ultimi 30 anni gli ergastoli per reati di mafia in Sicilia siano quasi 500, mentre nei 100 anni precedenti si contassero sulle dita di una mano: la mafia vince sempre.

Il film di Bellocchio arriva dopo che la figura di Buscetta e le vicende che lo riguardano sono state raccontate decine di volte, da svariati film, da serie televisive, da film per la TV, da tante “docufiction”, per non parlare delle ore e ore di trasmissioni televisive di tipo giornalistico. La quantità di materiale disponibile, sia originale che di ricostruzione, sia di tipo documentario che di fiction è così imponente, che davvero non si capisce il perché di un interesse di Bellocchio per la vicenda di Buscetta. A meno di pensare, come sembra suggerire la scelta di raccontare vicende emblematiche della storia italiana del passato che caratterizza il suo cinema degli ultimi anni, che anche Bellocchio come altri soffra di un problema di contenuti, e che per questo preferisca rivolgere lo sguardo all’indietro anziché provare a raccontare il mondo di oggi. Oppure ad una scelta commerciale, che di sicuro ha dato i suoi frutti. La crisi dell’antimafia negli ultimi anni (nuovi pentiti “più pentiti” dei precedenti che hanno imposto una rilettura completa della strage di Via D’Amelio, i processi a vari campioni dell’antimafia rivelatisi ben altro da quel che si pensava, le contraddizioni degli esiti processuali principali) offrirebbe spunti molto interessanti per una rilettura anche delle vicende del passato, ma qui Bellocchio evidentemente non aveva gli strumenti di conoscenza necessari ad avventurarsi in un terreno (a lui) sconosciuto.

Da un punto di vista formale il film è costruito sulla parabola discendente del personaggio cui abbiamo accennato. La prima parte, con il ritmo iniziale scandito dalle sequenze delle uccisioni nella seconda guerra di mafia, la violenza, il potere mafioso ecc. è in un certo senso la parte migliore del film, ma anche quella più convenzionalmente spettacolare da film d’azione coi cliché dei film di genere. Evidente l’influenza de Il divo di Sorrentino, nell’uso non meramente didascalico delle didascalie e di tutta l’estetica quasi da videoclip imposta dalle serie televisive come Romanzo Criminale (spiace dirlo, ma le musiche di Nicola Piovani in alcuni momenti sembrano scimmiottare davvero troppo quelle di Rota per Il Padrino, basti pensare a tutta la prima scena della festa di Santa Rosalia). La lunga parte relativa al Maxiprocesso è davvero discutibile: nonostante gli attori si dimostrino di bravura non comune in tutto il film, è davvero mortificante che gli sia stato chiesto di replicare interi spezzoni dei più cliccati video delle udienze o dei confronti in aula tra Buscetta e Calò, tra Buscetta e Riina ecc. Favino è bravissimo, ma perché fargli fare l’imitazione dell’originale, quando l’originale è disponibile su Youtube? Sembra davvero che qui abbia prevalso la voglia di compiacere in un modo facile gli “appassionati di mafiologia” (ci si passi l’espressione), scegliendo i passaggi più cliccati e famosi. Infine la parte finale, quella del declino, è davvero la meno efficace del film, anche se probabilmente voleva essere quella più emotivamente profonda. Ma dopo che il film ha cavalcato anche esteticamente la iconografia più conosciuta del Buscetta personaggio pubblico (ricostruendo addirittura le stesse sequenze dei documenti originali della Rai delle sue apparizioni nei processi o in televisione), inevitabilmente si indebolisce l’intento di un racconto originale ed emotivo.

All’uscita de Il traditore, forse qualcuno si era sorpreso del fatto che Franco Maresco si scagliasse così duramente contro il film (e quasi rabbiosamente contro l’interpretazione di Luigi Lo Cascio che interpreta Totuccio Contorno), nonostante la pur nota amicizia con Bellocchio. Se i più maliziosi potrebbero pensare che l’autore di La mafia non è più quella di una volta esprimesse soprattutto la frustrazione di chi ritiene quella di Bellocchio una invasione di un campo a lui troppo poco conosciuto, come se avesse voluto ad essere lui a raccontare questa storia, bisogna ammettere che le riserve del regista palermitano su questo film si rivelano corrette.
Totalmente in disaccordo. Il regista ha calibrato bene volti e caratteristiche dei protagonisti. L’interpretazione minimale ma ai limiti “dell’angelico” di Falcone (ottima interpretazione dell’attore, ma tutti come al solito si sono fatti abbindolare dalla interpretazione mimetica di Favino… che porta sempre fuori strada) da’ equilibrio al film. I mafiosi, anche il protagonista qui, sono tutti goffi. Per quanto riguarda Scorsese, sorprende che se ne sia accorto qualche anno prima che passasse a miglior vita, della grande s******ata che aveva fatto con Goodfellas e Casino. Come si diceva un tempo, meglio tardi che mai. Comunque un filmetto the irishman.. l’esame riparatore di settembre di una volta. Sempre ruffiano con la sua fotografia eccellente, e la colonna sonora da sessantottini.
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